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A differenza dell'Italia, Oltreoceano la libertà di stampa è una cosa sacra. Ad eccezione di Julian Assange

Il Press Act è il più forte atto legislativo sulla libertà di stampa nella storia americana moderna”. Così ai microfoni del Fatto Quotidiano Trevor Timm, direttore esecutivo della Freedom of the Press Foundation, un'organizzazione giornalistica che guida la coalizione promotrice della proposta di legge statunitense denominata Press Act. Una scelta importante quella intrapresa dall’amministrazione americana in totale controtendenza a quelle del governo Meloni, come ha sottolineato Stefania Maurizi sul Fatto, "che sottolinea come le due nazioni siano separate da un oceano in tema di libertà dell’informazione".
Il Press Act è una legge sulla protezione dei giornalisti dallo spionaggio di Stato. Questo emendamento è nato su impulso di alcuni membri della House of Representatives, la Camera che assieme al Senato costituiscono il Congresso americano, l'organo legislativo degli Stati Uniti.

La legge sulla stampa, approvata dalla Camera all’unanimità nel settembre 2022, tra le altre cose, vieta la sorveglianza delle e-mail e dei tabulati telefonici dei giornalisti tranne che in situazioni di emergenza. Inoltre, impedirà ai pubblici ministeri di costringere i giornalisti a testimoniare contro le loro fonti, a eccezione di situazioni molto limitate come il rischio terrorismo o di violenza imminente. La protezione si estende a qualsiasi documento e informazione creati o ottenuti dal giornalista e qualsiasi comunicazione conservata da terze parti, come le aziende di tecnologia, per conto di un giornalista.
Ora sarà la volta del Senato. “Se passerà al Senato nella forma attuale (approvata dalla House of Representatives, ndr) metterebbe virtualmente al bando la possibilità per il governo degli Stati Uniti di spiare i giornalisti o di costringerli a rivelare le loro fonti - ha aggiunto Timm -. Democratici e repubblicani riescono a malapena a mettersi d’accordo su qualcosa; quindi, il fatto che la proposta sia passata alla House of Representatives con un consenso unanime è un ottimo segno del fatto che può avere presto una chance reale di diventare legge”.

Davanti all’arroganza del potere che in Italia cerca sempre più di imbavagliare la libertà di stampa, il Press Act appare come una legge rivoluzionaria. Anche se si tratta delle condizioni base per poter svolgere questa professione. Nonostante questa svolta “progressista”, il rischio che il decreto sia solo un abbaglio non è affatto remoto. “Non è tutto oro ciò che luccica”, verrebbe da dire. Specie se si tratta degli Stati Uniti d’America, che spesso si sono dimostrati come dottor Jekyll e Mr. Hyde.
Da un lato promuovono il Press Act, dall’altro, invece, insistono con la richiesta di estradizione a carico di Julian Assange per poterlo condannare a oltre 175 anni di carcere per aver svolto il suo dovere da editore: dare notizie e tutelare le fonti.
Il fondatore di Wikileaks si trova recluso da 4 anni nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh (Londra), costretto ad un isolamento e un trattamento alla stregua dei peggiori terroristi internazionali. Il tutto, ovviamente, in barba ai diritti umani e al diritto internazionale. Tutto per aver denunciato, tra le altre cose, i crimini di guerra di vario genere perpetrati dal governo statunitense nel carcere di Guantanamo Bay, a Cuba, in Iraq e in Afghanistan.
La sua vita è appesa a un filo che potrebbe spezzarsi tra poche settimane. Il 20 e 21 febbraio prossimo, infatti, si terrà l’udienza davanti alla High Court di Londra che deciderà se il fondatore di WikiLeaks dovrà essere estradato negli Stati Uniti. L’unica chance che gli rimarrebbe sarebbe appellarsi alla Corte europea dei Diritti dell’uomo, ma con esiti incerti. “Tutti gli animali sono uguali - diceva George Orwell -, ma alcuni sono più uguali di altri”. Aveva ragione.

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