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L’elemento fondante del contrasto alla criminalità organizzata è l’aggressione ai beni e ai patrimoni ed è per questo motivo che uno dei capisaldi della legislazione antimafia e della lotta alla criminalità organizzata è il riuso dei beni confiscati alle mafie, perché in questo c’è il senso della costruzione della legalità.
Ogni volta che un bene tolto ai mafiosi torna alla collettività, questo rappresenta un segnale forte e concreto.
L’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati gestisce oltre 40.000 beni tra immobili e aziende ma solo circa la metà sono stati riassegnati. Molti vengono abbandonati. In Italia 5 beni su 10 rimangono ancora da destinare.
Per quanto riguarda le aziende non sempre e non tutte sono in grado di stare sul mercato legale non “inquinato”.
Spesso gli amministratori giudiziari scoprono che non solo sono state condizionate dalla mafia, ma che l’intera attività è criminale.
Il loro compito allora diventa immane perché occorre recuperare l’intera attività che in realtà veniva svolta con i sistemi illegali e molto spesso si ha a che fare con scatole svuotate dagli ex titolari, trasformate in strumenti di clientelismo, che utilizzano materie prime di scarsa qualità, che applicano prezzi fuori mercato, oltre a sfruttare i lavoratori non pagandoli il dovuto e non versando i contributi. Sembra stonare, è vero, ma spesso è quel “risparmio di legalità” che consente alle aziende di reggersi, ma non sempre è così e per fortuna esistono esperienze virtuosissime in tal senso.
C’è da constatare purtroppo un'inadeguatezza complessiva della macchina burocratico-amministrativa in particolare dell'Agenzia del demanio e dei Prefetti. Una inadeguatezza che dilata enormemente la durata dell'iter di assegnazione dei beni che, in molti casi, sono in buone condizioni al momento della confisca ed arrivano all'assegnazione in stato di abbandono e di degrado. Insomma, un vero e proprio cortocircuito quello che si innesca, poiché da un lato si trova l'Ente locale che non dispone delle risorse economiche per il recupero del bene e tenta di assegnarlo nelle condizioni date, dall'altro la platea di soggetti sociali, economicamente deboli, che non possono accedere al bene in quanto non sono in grado di far fronte ad un così ingente investimento.
“La mancata assegnazione, e quindi il mancato utilizzo, di beni sottratti alla criminalità, è di per sé un segnale negativo per ciò che rappresenta, - dice Giovanni Pistorio, segretario generale Fillea Cgil Sicilia - cioè la mancanza di una idea chiara di sviluppo organico del territorio da parte delle amministrazioni, un vuoto che presta inevitabilmente il fianco a speculazioni da parte di consorterie affaristico-mafiose”. E’ lo stesso Pistorio a ricordare che anche le ingenti risorse destinate dal PNRR alla valorizzazione dei beni confiscati rischiano di risultare vane se il governo nazionale non impegna tutte le sue forze al controllo ed alla gestione di tutto il processo di assegnazione.


I numeri

Il maggior numero di beni immobili confiscati è proprio in Sicilia (6906), segue Calabria (2908), Campania (2747), Puglia (1535) e Lombardia (1242). Sono invece 4384 le aziende confiscate, di queste il 34% è stata già destinata alla vendita o alla liquidazione, all'affitto o alla gestione da parte di cooperative formate dai lavoratori delle stesse; il 66% è in questo momento ancora in gestione presso l’Anbsc.


Beni messi all’asta

E’ una proposta che ritorna spesso, all’interno del dibattito sulla materia, quello di mettere all’asta i beni confiscati. Si hanno alcune notizie, in Lombardia per esempio, di tribunali che hanno messo a punto delle procedure agevolate per poter vendere i beni anche prima di averli definitivamente a disposizione, ma comunque in 30 giorni.
Ci sono casi in cui il nostro Codice effettivamente ne prevede la vendita, ad esempio per il risarcimento dei danni alle vittime in procedimenti per mafia, quando non ci sia altro modo di indennizzarle. Ovviamente si tratta di vendite da eseguire con tutti i criteri e le precauzioni necessarie.
Ma sgombriamo subito il campo da un equivoco: la vendita di un bene non assegnato è un fallimento, ed anche grande. Nei percorsi di legalità, o meglio, nella costruzione di questi percorsi, c’è sempre una responsabilità: quella dell’agire. Una responsabilità che è collettiva e che si deve attivare per riuscire a riassegnare il bene, a diversi livelli. Esiste il primo fondamentale livello che è quello dell’Agenzia per i beni confiscati e sequestrati, che deve essere efficace e veloce nel facilitare i meccanismi di assegnazione. Ci sono poi le Amministrazioni locali che non investono a sufficienza sulla formazione dei loro dirigenti affinché siano abili conoscitori dei meccanismi per il riutilizzo dei beni: questo vale diffusamente sia per i grandi come per i piccoli Comuni, ma c’è comunque da dire che - paradossalmente - sono i piccoli comuni quelli che li assegnano e li riutilizzano di più, nonostante l’esiguità del personale.


Quale strada seguire

Occorre assegnare adeguati strumenti e risorse agli uffici giudiziari competenti e all'Agenzia nazionale: questo deve avvenire in tutto il procedimento di amministrazione dei beni, e possibilmente, prevedendo un raccordo fra la fase del sequestro e della confisca fino poi alla destinazione finale del bene.
Facile e veloce accessibilità alle informazioni sui beni sequestrati e confiscati.
Coinvolgere attivamente il terzo settore innescando percorsi partecipati e democratici di progettazione.
Agevolare una sorta di monitoraggio civico dei cittadini.
   

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