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Se volete conoscere la verità sulla mafia non date retta ai proclami ministeriali o alle serie tv.

Per conoscerla serve andare nei luoghi dove risiede: vederla, sentirla e prendere appunti, tanti appunti. Oppure, ascoltare chi quella mafia l'ha combattuta.

A scanso di equivoci si parla della mafia delle stragi, delle bombe a Palermo, Roma, Firenze e Milano; di quella, in parole povere, che ha "fatto la guerra per poi fare la pace" con lo Stato: cioè trattò, come aveva anticipato in quella frase l'allora capo dei capo Totò Riina. E le bombe, dal 1994, tacciono. Ma la verità su quella stagione terribile non è ancora completa.

"Perché è accaduto quello che è accaduto? Perché soprattutto diventa importante parlarne ancora oggi? perché da 150 anni non c'è verità su quei fatti, ma soprattutto, e forse ancora peggio, non abbiamo risolto il problema. Perché è vero, magari non ci sono più le autobombe, ma mafia, ’Ndrangheta e Camorra sono ancora oggi presenti. Esistono ed esistono da 150 anni in tutto il territorio nazionale, non solamente nel sud Italia, come a lungo si è creduto". A parlare è stato Aaron Pettinari, caporedattore di ANTIMAFIADuemila in un incontro con i ragazzi del liceo statale Galileo Galilei di Paola (Calabria) con il procuratore della Repubblica di Lagonegro Gianfranco Donadio e l'ex magistrato Antonio Ingroia, oggi avvocato organizzato dal Centro Studi dedicato alla memoria di Pompeo Panaro, imprenditore e politico, caduto per mano non solo della mafia ma anche da apparati corrotti della società, rappresentati dal figlio Paolo Panaro e dall'avvocato Gianluca Maio.

Ma perché la mafia degli anni novanta ai giorni nostri ha smesso con le stragi? Ha chiesto uno studente.

La risposta non può essere liquidata con un semplice 'ora non gli conviene più uccidere, perché uccidere e piazzare bombe rovina gli affari'. Se volessimo cercare una risposta di respiro più largo e non limitata alle carte giudiziarie occorre dare un nuovo metro di misura.

Per scoprire cosa è oggi la mafia occorre cambiare prospettiva: cioè vederla come un unico sistema criminale. Un sistema che si è concretizzato anche negli anni delle stragi. Questi fatti, ha ricordato Pettinari, "non hanno riguardato solo Cosa nostra", anche "la Calabria ha avuto un ruolo in tutto questo". Da tale processo è emerso che “Cosa nostra e ’Ndrangheta non sono due organizzazioni mafiose separate, sono una unica organizzazione", ha ribadito Ingroia. E se le organizzazioni sono cambiate è inevitabile che siano cambiati anche i membri: "Il mafioso oggi deve essere invisibile, non ricava più la sua forza e la sua visibilità ma ricava la sua forza e la sua invisibilità, la sua capacità di mimetizzazione. La mafia - ha continuato l'ex magistrato - ha cercato una sua sopravvivenza, aveva bisogno per la sua sopravvivenza di attuare una tregua delle armi nei confronti dello Stato. Poi se questa tregua delle armi sia stata una scelta unilaterale dei mafiosi o è stata concordata con pezzi del mondo legittimo dei poteri legittimi è questione da rassegnare ai libri di storia. Alcune sentenze ormai definitive che dicono che quella scelta di tregua della mafia non fu una scelta unilaterale necessitata ma fu anche frutto di cosiddette trattative".

E non vi è dubbio sul punto.


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Gianfranco Donadio, procuratore della Repubblica di Lagonegro

La questione economica

Donadio durante la conferenza tira fuori dal portafoglio una banconota da dieci euro, "che più o meno equivale ad una banconota di 10 dollari". Ebbene "negli anni '70 investire una banconota da 10 dollari nel traffico internazionale dell'eroina voleva dire avere un ricavo finale pari a 10.000 dollari". Una forbice di guadagno che non ha pari in nessun altro mercato al mondo.

Questo fatto "l'accumulazione capitalistica criminale di Cosa Nostra negli anni '70 vale all'incirca 700 miliardi delle vecchie lire l'anno". "Per tanti anni, verosimilmente più di dieci anni - ha detto - questa organizzazione criminale riesce a sviluppare un meccanismo di accumulazione di capitali che nessuna altra organizzazione criminale nel mondo occidentale, nel mondo delle economie di mercato, aveva potuto conseguire. E voi sapete che se il rapporto è di uno a mille, non tutti i proventi del traffico degli stupefacenti possono essere reinvestiti negli stupefacenti. Per un semplice motivo. Le leggi dell'economia sono inflessibili. La legge del rapporto tra domanda e offerta vale anche per l'economia criminale. Se voi investite anziché un dollaro, mille dollari dovete moltiplicare per mille il numero degli acquirenti finali e questo non è possibile perché la curva del consumo degli stupefacenti, che progressivamente è aumenta purtroppo, non è mai impennata come la curva dei ricavi dal traffico. Quindi questo differenziale tra la curva della domanda e la curva dei ricavi crea denaro o di ricchezza che deve bussare a qualche porta, deve essere accolto non negli acquisti di droga.

Ma "ad un certo punto non vi è domanda di beni e servizi criminali, allora questo denaro deve bussare ed entrare nel mondo della finanza, nel mondo delle banche, nel mondo degli affari. Negli anni ’70, qualcuno se ne accorge subito, e anche Borsellino, devo dire, ha idee molto chiare, in proposito a questa grandissima quantità di denaro che bussa alle porte dell'economia legale.

E queste porte dell'economia legale soprattutto nel ricco Nord Italia si spalancano di fronte al profumo del denaro che arriva dalla mafia".

I ricordi del magistrato arrivano fino agli albori dell'inchiesta sui traffici di droga 'Big John'. Del caso si occupò direttamente Giovanni Falcone il quale arrivò fino alle porte di "alcune misteriose società svizzere". Una di queste era una finanziaria e "si chiamava Fimo, dove Falcone tentò di mettere il naso, per dirla così, investigando, però molto probabilmente non poteva prevedere che quella piccola banca svizzera che veniva adoperata da Cosa nostra per pagare le forniture di cocaina era molto più importante di quanto non si potesse immaginare. In quella piccola banca svizzera finiva denaro da parte di una clientela insospettabile.

Si rivolgevano a quella piccola banca svizzera, personaggi dell'industria, personaggi del commercio, ambienti massonici, paramassonici, imprenditori, perfino alcune tranche di fondi neri accantonati illecitamente dai servizi segreti del nostro paese erano finiti in quella misteriosa cassaforte svizzera. Quando Falcone aprì virtualmente la porta di questa misteriosa piccola banca svizzera, scoperchiò un forziere che conteneva misteri terribili e improvvisamente si trovò a dover affrontare avversari molto più insidiosi dei narcotrafficanti”.


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La strage di Firenze

Con voce calma il magistrato Donadio fa partecipi i ragazzi della sua esperienza come consulente della commissione parlamentare antimafia. In particolare il procuratore di Lagonegro ha spiegato tre aspetti insoliti della strage di via dei Georgofili, avvenuta nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993.

Ecco i punti certi: "Non c'è dubbio che quattro mafiosi partirono da Palermo, dal quartiere Brancaccio di Palermo, dal quartiere di Graviano di Palermo, e furono spediti in missione a Firenze"; la missione non era "rigorosamente inquadrata nell'operatività di Cosa Nostra, perché straordinariamente ebbero anche un cospicuo rimborso spese"; oltre ai mafiosi partì "un camioncino, lo guida un tale signore Carra, uno che se ne va in giro per l'Italia e porta esplosivo di seconda mano, ricavato dallo smontaggio delle mine che i pescatori a largo di Palermo ogni tanto tiravano con le loro reti. Era tritolo, TNT".

Questo carro consegnò poco lontano da Firenze, a questi quattro picciotti, circa "90 chili di tritolo di seconda mano".

Fino a questo punto gli elementi sono conosciuti. Da qui, però, le zone d'ombra e i dubbi si allargano.

La buca provocata dall'esplosione non poteva essere stata causata da 90 chili di esplosivo. I periti nominati dal tribunale ne hanno calcolati almeno 157.

"Però un momento. Il pentito Spatuzza e anche altri ci avevano raccontato di 90 chili", ha ribadito Donadio. E poi: era solo tritolo?

La macchina dei tecnici "tirò fuori non solo una quantità enorme di esplosivo di gran lunga superiore a quella che era arrivata da Palermo, ma tirò fuori tante altre sigle di esplosivo e in particolare evidenziò la presenza nel cratere di Firenze di esplosivo in senso lato di tipo militare". "Chi l'ha portato? I mafiosi non lo avevano".

Secondo punto: ad esplodere era stato un fiorino bianco. Un testimone (tra l'altro ascoltato con spaventoso ritardo) che faceva il portiere ha riportato che quella notte "era stato quasi svegliato intorno alle 11 e mezza da uno strano trambusto"; "si nasconde dietro la persiana e vede che esattamente in questa via della Scala, se non sbaglio, nel cuore di Firenze, accadono cose strane. Arriva un fiorino e poi arriva una macchina che lui descrive per il colore carta da zucchero. E poi arriva una macchina scura, la descrive come una Mercedes". Quello che aggiunge è un particolare stranissimo: "Ci sono queste tre macchine. Qual è la particolarità? Che dalla Mercedes viene caricato sul fiorino una borsa.  Una borsa qualunque? No. Il nostro testimone ha idee molto chiare, malgrado il tempo trascorso". Si tratta di "una borsa pesante. Tanto pesante che lui vide che per sollevarla era stato necessario un grosso sforzo. Una borsa pesantissima transita dalla Mercedes al portabagagli del Fiorino, che come sapete è un furgone che ha un portellone.


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L'intervento dell'avvocato, Antonio Ingroia


Le operazioni di carico sono effettuate con grande fretta. I toni sono concitati.

Lui coglie anche degli slang dialettali. Però quello ci dice una cosa veramente importante: a dirigere queste operazioni è una donna".

Di femmine in Cosa nostra ci sono sempre state, così come donne di mafia. Ma "Cosa nostra a Firenze non ne aveva femmine nel 1993 in grado di fare un attentato. Cosa nostra non le aveva, e se le aveva, non le mandava a fare gli attentati".

Chi era questa misteriosa figura?

Terzo elemento: un altro testimone, un ingegnere, aveva detto, sentito dalla Digos, di essere uscito quella notte e di aver visto "un signore che parcheggia frettolosamente il fiorino. Lo descrive. E che cosa dice? 'Io sono alto un metro e novantatre', mi pare. Una bella altezza, al di sopra della media".

E poi ha aggiunto: "'La persona che è scesa dal fiorino è solo un poco più bassa di me'", cioè "voleva dire che era uno e ottentacinque". Ma Cosimo Lo Nigro, il condannato all'ergastolo per la strage di Firenze e che nelle sentenze è indicato come essere stato l'uomo alla guida del Fiorino, è alto poco meno di un metro e settanta.

Un dettaglio. Ma un dettaglio che dà un'enorme differenza.

Foto © ACFB


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