Depositate le motivazioni della sentenza della corte d’Assise di Novara contro il magnate svizzero condannato per omicidio colposo
Millecentoventi pagine scritte in sei mesi per spiegare perché Stephan Schmidheiny, il magnate svizzero ultimo proprietario della Eternit di Casale Monferrato, è stato condannato dalla Corte d’Assise di Novara a12 anni di reclusione per omicidio colposo aggravato e ad un risarcimento record alle diverse parti civili.
Per la corte - come si legge nelle motivazioni - lungo gli anni Schmideiny pur conoscendo i "notevoli rischi per la salute umana", non ha fatto abbastanza in materia di sicurezza, anzi ha "orchestrato una campagna" per "minimizzare i pericoli dell'amianto".
I giudici hanno riconosciuto al manager a carico della Eternit fino al 1986 la responsabilità solo di 9 decessi sui 392 di cui era accusato, quelli degli operai che hanno contratto "con certezza" il mesotelioma per l'esposizione all'amianto. Negli altri casi è stato assolto o è scattata la prescrizione. Ma la sentenza dei giudici novaresi non nasconde le responsabilità per quella che viene definita una strage "senza precedenti”.
L’ex proprietario dell’azienda era, per i giudici, deputato ad effettuare misurazioni sull’inquinamento aziendale. La soglia di attenzione è durata un anno tanto che le “osservazioni sono state fornite soltanto nel 1977 in occasione della redazione del primo rapporto”. Poi basta. Dicevano che “si era di fronte a uno stabilimento modello”. Tutto il contrario. L’inquinamento creato dalle fibre d’amianto a Casale è stato “estremo e insostenibile” scrivono i giudici. E il patron avrebbe “dovuto accorgersene in virtù di diverse segnalazioni pervenute in quegli anni”. Tra tutte “quelle dell’Ispettorato del Lavoro di Alessandria che a partire dal luglio del ’76 aveva comminato 67 prescrizioni sul tema della polverosità”.
Eppure - si legge in sentenza - di cose da fare per mitigare il rischio ce ne sarebbero state tante. Una lavatrice industriale - ad esempio - per lavare le tute degli operai “che avrebbe consentito di frenare una delle vie di circolazione delle polveri all’esterno della fabbrica quando i dipendenti rientravano nelle loro abitazioni ancora imbrattatii”. O una mensa apposita, in cui gli operai e gli addetti avrebbero potuto mangiare in ambienti non contaminati da polvere di amianto.
Si è deciso invece di investire nel “Mulino di Hazemag” costruito - questo sì - dall’azienda e con ottimi risultati di profitto economico, «in un periodo in cui era certa la micidialità di grandi esposizioni a microfibre di amianto”. Cioè “si è deciso di investire in una struttura che si basava su frantumazioni a ciclo continuo e a cielo aperto di grandissime quantità di scarti di produzione di amianto provenienti da tutti gli stabilimenti italiani rappresentando un’importantissima, se non la principale, fonte di inquinamento ambientale che ha portato all’intossicazione letale dell’intera comunità casalese”.
Giuliana Busto, presidente dell'associazione Afeva, che riunisce i familiari delle vittime dell'amianto, al momento della sentenza, nello scorso giugno a Novara, si era detta "moderatamente soddisfatta", pur con la consapevolezza che "la lotta non è finita". Ora, a partire dalle motivazioni della sentenza, gli avvocati struttureranno il ricorso che avevano già preannunciato.
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