Di fronte all’aumento degli ingressi occorre pensare a nuovi strumenti: indagini sui flussi di denaro, intercettazioni e controlli satellitari, incentivi alla collaborazione, agenti infiltrati sotto copertura
Accantoniamo ridondanti e improponibili progetti, spesso condizionati da pregiudizi ideologici, e rimbocchiamoci le maniche per effettuare un vero salto di qualità in questa sfida.
Partiamo dall'insegnamento di Giovanni Falcone.
Quale significato e quali conseguenze trarre dal numero assai allarmante, dei quasi 100.000 ingressi di extracomunitari in Italia nei primi 7 mesi di questo 2023 e di ben 23.639 nel solo mese di luglio? Un numero di ingressi di fatto triplicati rispetto al dato del 2011. Il fenomeno si rivela di sicuro assai difficile da gestire, al di là delle facili soluzioni agitate in campagna elettorale, dal blocco navale (una vera corbelleria giuridica alla luce delle indicazioni provenienti da illustri studiosi di diritto internazionale) ai cosiddetti "porti chiusi" (altra invenzione giuridica non in linea con i trattati internazionali sottoscritti dall'Italia e le sentenze emanate in materia della Corte Edu e dalla Corte Costituzionale).
Sotto altro aspetto, l’indirizzo politico cristallizzato, nella Legge n. 15/023, che ha fortemente penalizzato l'attività di salvataggio delle Ong, sottraendo peraltro il controllo sulla legittimità delle loro condotte alla Autorità Giudiziaria e delegando ai Prefetti e ai Questori la valutazione delle stesse, non ha prodotto alcun significativo risultato in termini di riduzione dei flussi immigratori, se è vero come è, vero che le Ong hanno salvato solo il 10% degli immigrati arrivati in Italia attraverso il Canale di Sicilia. Tant’è che anche lo slogan secondo cui le Ong rappresentavano un pull factor dell'immigrazione clandestina si è rilevato l'ennesimo slogan elettorale disarticolato dalla realtà. Il vero è che, purtroppo, i limiti imposti alle Ong, talvolta irragionevolmente (sul punto vedremo cosa diranno i Giudici Amministrativi all'esito dei ricorsi avverso i vari provvedimenti amministrativi di fermo e alla imposizione di sanzioni), hanno privato il complessivo sistema di salvataggio, in un momento difficilissimo come quello di questa estate 2023, di una importante risorsa, con ricadute in termini di vite umane lasciate alla violenza del mare difficilmente quantificabile.
Queste critiche in punto di diritto nulla tolgono peraltro all'enorme sforzo profuso dalle Forze dell'Ordine e dalla Guardia Costiera e a quanti nelle Istituzioni, con grande coraggio e spirito di servizio, hanno tenuto in piedi un sistema di accoglienza sempre più eroso da leggi e circolari che hanno vanificato i principi alla base dell'originaria impostazione del Testo Unico sull'Immigrazione. Questi dati, implacabilmente fuori controllo a prescindere dal colore dei governi che hanno e che continuano ad affrontare febbrilmente il problema, ci indicano che la soluzione dello stesso non è da rinvenire all'interno del perimetro nazionale, ma deve essere ricercata in un più ampio contesto internazionale. Agire per abbattere le grandi differenze economiche e sociali dei paesi di provenienza degli immigrati è oggi poco meno di una utopia e tuttavia alcuni dati devono essere tenuti presenti anche al fine di non alimentare odi e irragionevoli pregiudizi. Fin quanto il reddito annuo pro capite in paesi come il Pakistan si attesta in 1.505 dollari, in Costa d'Avorio in 2.549 dollari o nella più vicina Tunisia in 3.800 dollari, a fronte dei 35.657 dollari del reddito annuo pro capite dell'Italia e dei 43.658 dollari della Francia, si capirà bene come la vita per un nordafricano o per un pachistano sia ben più felice in Europa anche ad elemosinare o a svolgere lavoretti clandestini sottopagati. Che dire poi dei 170.000.000 di bangladesi che vivono stipati in un paese che è tre volte più piccolo dell'Italia, afflitto da alluvioni, dove si contano 50 milioni di veri poveri e dove il 40% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno.
Senza dire ancora degli altissimi indici di mortalità infantile e delle basse aspettative vita nei principali Paesi di provenienza degli immigrati, dati da soli capaci di spiegare come tante mamme si avviino in tragiche traversate portando con sé bimbi ancora in fasce accettandone il rischio morte. Che dire infine delle lotte tribali che affliggono tanti paesi dell’Africa sub sahariana e delle guerre del corno d’Africa dove la vita di un uomo, e ancora meno quella di una donna, vale giusto un colpo di machete, dove le donne sono vittime di continue violenze sessuali e dove lo stupro fa parte del costume bellico di quei luoghi e di quelle milizie. A questo punto del dibattito, in genere, non si possono non affrontare questioni storiche legate al colonialismo e allo sfruttamento economico dell'Africa, e ancora le questioni legate alla delocalizzazione della manodopera, di cui noi ci guarderemo bene dall'affrontare per non incorrere negli strali dei revisionisti oggi sempre più numerosi. Così come non affronteremo il tema dell'apertura dei flussi di lavoratori stranieri e dei canali umanitari che lasceremo ad una onesta politica di integrazione.
Mi permetterò invece, restando nel perimetro assegnato all’operatore del diritto, di indicare delle misure da intraprendere per una seria lotta al traffico degli esseri umani, partendo da una esigenza sempre più avvertita che è quella di perseguire la tratta degli esseri umani, come pure l'immigrazione organizzata in modo clandestino e violento, come reati contro l'umanità e pertanto come reati universali. Il tema del reato universale, venuto di recente alla ribalta per la nota vicenda dell'utero in affitto, necessita della convergenza delle legislazioni di vari Paesi che unanimemente ritengono che una determinata condotta, per i beni primari che offende (in primis la dignità umana) vada repressa ben oltre le frontiere del proprio paese di origine. Ora, affinché un reato tenga considerato "universale" non basta una etichetta formale facilmente applicabile dalla legislazione nazionale ma occorrono convergenti volontà politiche internazionali di repressione di determinati gravi fenomeni criminali. Per fronteggiare il fenomeno esistono, o si possono creare, speciali Tribunali, speciali uffici del Pubblico Ministero, Commissioni di inchiesta e gruppi investigativi specializzati, come si è fatto per i gravi crimini di guerra commessi nei vicini confini orientali. Certo occorrerà che nessun Paese abbia a dialogare con i "signori della morte", con "dittatorelli" e capi tribù vari, per biechi interessi economici o per meri calcoli di influenza internazionale. Su questo terreno occorrerà un onesto impegno bipartisan da parte di tutti.
Ma anche a prescindere dalla praticabilità in concreto di una seria repressione transnazionale del reato di tratta, smettendo di spacciare l’arresto dello scafista di turno come un successo investigativo, ci sono strade da percorrere e che, forse fino ad ora, non sono state percorse fino in fondo nonostante la professionalità di chi opera sul campo. Mi permetterò quindi di sollevare qualche perplessità su alcuni strumenti operativi fin qui forse non correttamente esperiti. Partendo dall'insegnamento di Giovanni Falcone, siamo sicuri di avere ben investito, in termini di professionalità e di mezzi tecnici, nelle indagini sui flussi di denaro che dagli immigrati pervengono con transazioni monetarie su internet ai trafficanti di esseri umani? A che punto siamo con le intercettazioni satellitari da effettuare in mare e nei deserti battuti dai trafficanti di esseri umani? A che punto è la collaborazione fra le forze militari internazionali e i servizi di intelligence che operano nei paesi di provenienza dei migranti o lungo le rotte dell'immigrazione? Esiste un collegamento efficace fra le forze di intelligence internazionale, la polizia giudiziaria e le Procure Distrettuali? Esiste la possibilità di utilizzare satelliti militari per monitorare le rotte dell'immigrazione? È stata mai esplorata fino in fondo la possibilità, legislativa ed operativa, di infiltrare agenti sotto copertura fra i trafficanti di esseri umani? Ed ancora, si è percorsa la strada dell'incentivazione alla collaborazione di quei trafficanti detenuti in Italia?
L’Italia vanta grandi risorse professionali nel campo della lotta al terrorismo, alle mafie, al riciclaggio internazionale e al narcotraffico, siamo sicuri che queste professionalità non possano essere utilizzate per combattere questo immondo traffico di esseri umani? Accantoniamo quindi ridondanti e improponibili progetti, spesso condizionati da pregiudizi ideologici, e rimbocchiamoci le maniche per effettuare un vero salto di qualità nella lotta ai trafficanti di esseri umani. Non sarà la soluzione del problema ma almeno avremo fatto, nel nostro piccolo, un po’ di giustizia a chi giustizia non ha mai avuta e che giace nei deserti africani o nei fondali del mare mediterraneo.
Tratto da: Avvenire