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Voglio essere chiaro da subito: non risponderò al quesito, quasi retorico, che io stesso ho posto in cima a questo articolo, mi limiterò però ad usarlo come grimaldello per provocare un ragionamento, una riflessione su un tema fondamentale che riguarda la verità giudiziaria e l’accertamento della responsabilità: ha pagato chi, in quella lontana e calda giornata di agosto, alla stazione di Bologna, ha tentato di stravolgere l’assetto democratico del nostro Paese.

A differenza degli altri grandi "misteri d’Italia" che si celano dietro le stragi - diciamo anche da Portella della Ginestra in poi - il quadro fattuale e interpretativo che si cela dietro la strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna è abbastanza chiaro: le indagini, ostacolate da numerosi depistaggi, hanno portato, come è noto, alla condanna degli esecutori materiali, appartenenti al gruppo terroristico neofascista Nar, con sentenze passate in giudicato nel 1995 (Francesca Mambro e Giuseppe Valerio Fioravanti) e nel 2007 (Luigi Ciavardini) e dei depistatori (Licio Gelli, loggia massonica P2, il tenente colonnello Giuseppe Belmonte e il generale Pietro Musumeci del SISMI e Francesco Pazienza). In alcuni casi verità storica e verità giudiziaria non coincidono, in alcuni divergono, ma nel caso della strage di Bologna non vi è evidenza di contraddizioni tra le due. In questi 43 anni esponenti politici hanno sollevato dubbi, hanno proposto piste alternative, tutte vagliate dalla magistratura, che non ha trovato alcun riscontro: l’enorme mole dei documenti di cui si dispone, le analisi compiute, non portano a smentire in alcun modo le ricostruzioni fatte fino a qui e confermate dalle sentenze.

Per quanto riguarda altri tipi di connessioni negli interventi più o meno diretti nella strage occorre ricordare che nel marzo 2018 si è aperto presso il tribunale di Bologna un nuovo procedimento a carico di Gilberto Cavallini, un militante dei Nar, per complicità nella strage, e nel gennaio 2020 una sentenza di primo grado lo ha condannato; il contesto in cui è avvenuta la strage e i legami intercorsi fra diverse organizzazioni neofasciste e uomini dei servizi segreti è cosa ormai confermata dalle sentenze ma anche dalle ricostruzioni storiche. La procura generale di Bologna, inoltre, nel febbraio 2020 ha chiuso l’inchiesta sulla strage notificando quattro avvisi di fine indagine. Tra i destinatari, Paolo Bellini che secondo l’accusa avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, tutti deceduti, e inquisiti come mandanti, finanziatori o organizzatori.

La strage di Bologna, che chiude la stagione delle stragi iniziata nel secondo dopo guerra con Portella, come si ricordava prima, è stata la prima ad avere sentenze passate in giudicato che condannano esecutori materiali e depistatori, mentre per avere un procedimento che indaghi finanziatori e mandanti sono serviti oltre trent’anni e ancora la magistratura è impegnata su questo fronte. Ci si può domandare come si sia arrivati a queste inchieste e se abbia davvero senso celebrare un processo ad oltre 40 anni da quel 2 agosto quando, fra l’altro, molti degli indagati sono deceduti. La giustizia ritardata è giustizia negata, si afferma non senza ragione, nonostante questo credo che pur tarda essa sia necessaria per le vittime, per i loro familiari, per i cittadini italiani e anche per gli storici, visto che i procedimenti giudiziari permettono di acquisire nuovi documenti, nuove fonti e possono mostrare ai cittadini la volontà di procedere nei confronti di chi, in quegli anni, ha tentato di modificare, condizionare, stravolgere l’ordinamento democratico del nostro Paese.

Una giustizia che arriva in ritardo, dunque, che giustizia è? Cosa dobbiamo a quelle 85 vittime, ragazze e ragazzi, madri, padri, operai, insegnanti, medici... Forse la giustizia è necessaria a prescindere da quando arriva e da chi riesce a condannare, forse la giustizia è impecetta, o meglio l’applicazione della giustizia, ma rimane comunque necessaria, anche a distanza di 43 lunghi anni.

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