Intervista a Pietro Orlandi sulla comunicazione e i rapporti con i media
Alla manifestazione del 14 gennaio, giorno del compleanno di Emanuela, ti ho visto molto commosso per la grande partecipazione. Cosa ha voluto dire per te trovarti a parlare davanti a quella piazza?
Ovviamente di manifestazioni come quella ne abbiamo fatte diverse. Ce ne sono state alcune molto numerose. L'ultima non me l'aspettavo così grande. Di solito la faccio sempre per il compleanno di Emanuela e il 22 giugno, che è il giorno dell'anniversario del rapimento. Ultimamente, sì venivano persone, ma potevano essere un centinaio di persone. […] Questa volta mi ha colpito più di altre volte perché c'erano almeno 700 persone. Tutta quella piazza era piena. […] Quando dici che mi sono commosso, sì mi sono commosso per questo affetto. Ho riscontrato la solidarietà, la vicinanza, proprio l'affetto delle persone. E questa è la benzina di quel motore che mi spinge ad andare avanti: la vicinanza della gente, dei giovani. Lo sto riscontrando tantissimo perché ricevo molti inviti da parte delle scuole. Qua a Roma ne ho fatti diversi di incontri, ma anche fuori. […] In uno degli ultimi che ho fatto, ci saranno stati... Io penso non meno di 300 ragazzi del liceo, e per quelli che non entravano avevano predisposto nella palestra una telecamera per riprendere l’incontro. […] E la cosa bella è che il discorso è partito da Emanuela, perché mi hanno invitato a parlare di questa storia, però alla fine si è ampliato al senso di giustizia. C'erano pure ragazzi di 15-16 anni che mi parlavano di giustizia. Qualcuno mi diceva: «Sento veramente questa voglia di giustizia. Non ci avevo mai riflettuto». Secondo me, quella è già una vittoria, piccolissima ma una vittoria: sensibilizzare i ragazzi giovani a non accettare passivamente un'ingiustizia. Io parto sempre così nei discorsi. Quando mi chiedono «Come mai dopo 40 anni?». Ecco quella è la base: non accettare passivamente un'ingiustizia. Questo è il messaggio che cerco di passare. E mi rendo conto che alla fine dell'incontro quello è il messaggio che è passato più di tutti. […] Se io porto avanti questa storia di Emanuela, il dovere lo sento nei confronti di un cambiamento, forse rispetto a quel fallimento della mia generazione sulle questioni legate alla giustizia. Mi piacerebbe, appunto, che ci fosse un cambiamento rispetto al passato. Lo percepisco come un dovere nei confronti di tutti quei familiari che vivono la stessa situazione, ma nel silenzio totale.
Il fatto che la scomparsa di tua sorella sia il caso più noto di tutti, quanto pensi sia dovuto alla complessità e all’oscurità del caso e quanto invece alla tua capacità comunicativa e alla tua forza d'animo?
Forse un po' tutte e due. Prima di tutto, quella di Emanuela io non la considero mai una scomparsa, io lo considero rapimento, perché comunque sia c'è stata una richiesta di riscatto. Ovvio che ha avuto un impatto mediatico forte perché è una cittadina vaticana, perché c'è stato l'interesse del papa e perché è stato richiesto lo scambio con il suo attentatore, in un periodo particolare, il periodo della Guerra fredda. […] Il papa, sei mesi dopo la scomparsa, quando venne a casa nostra, ci disse: «Questo è un caso di terrorismo internazionale e io sto facendo quanto è possibile umanamente per arrivare a una soluzione». Poi, però, da quel momento, Giovanni Paolo II ha permesso al silenzio di calare su questa storia. Da lì è partita l'omertà del Vaticano. Fine. E c'è stata sempre la volontà di far accettare passivamente la cosa. C'è stato un periodo, tra il ‘97, quando è stata chiusa l’inchiesta, e il 2006-2007, quando invece è stata riaperta perché avevamo presentato un'istanza, c'è stato quel periodo bruttissimo, di vuoto proprio, perché la gente cominciava a dimenticare. […] Poi nel 2010 decisi di scrivere un libro. Non lo volevo scrivere, però me lo aveva proposto Peronaci. Io dicevo: «Ma a che serve un libro adesso?». In quel momento era uscito il discorso della Minardi, era in quel periodo là. Alla fine accettai, dissi: «Va bene, purché non si parli dell'attuale ma di quelle cose che la gente sta dimenticando, tutti quei fatti che la gente non conosce». Quando mi sono sentito rispondere: «Perché prima della Minardi che cosa è successo di importante?». Allora lì ho capito che era quasi riuscito quel tentativo nei confronti dell'opinione pubblica di far dimenticare. Così ho detto: «Okay, facciamo questo libro». E lo feci con lo scopo, non economico perché non presi neanche una lira, di andare in giro nelle piazze in Italia a presentarlo, per raccontare questa storia e ricominciare a sensibilizzare le persone. Da lì piano piano è ripartito tutto, perché si è cominciato a creare un movimento stranamente molto forte, dovuto al fatto che c'erano già i social. Aprii il primo gruppo sui social e la gente si iscrisse. Organizzai la prima petizione per Ratzinger. Poi la prima manifestazione. […] Devo dire la verità, se fino a poco tempo prima mi sentivo veramente solo, morto mio padre, il papa. Quindi non avevo punti di riferimento, con chi prendermela, avevo il vuoto intorno, l'inchiesta chiusa. Lì la spinta della gente, la solidarietà della gente... cavolo, mi ha fatto dire: «Non ci si può più fermare fino alla fine». Devo molto alla gente.
Vedi nel libro quel momento di svolta che ti ha dato la forza di andare avanti?
Il libro mi è servito perché avevo necessità di stare a contatto con le persone e raccontare quelle cose. Se tu sai di una vicenda perché l’hai letta su un giornale, ti passa così. Se te la racconta una persona che l'ha vissuta, la percepisci in maniera diversa. Sentivo proprio la necessità di incontrare fisicamente le persone. Partendo proprio dai sentimenti che abbiamo provato noi dal primo giorno. Di quelle illusioni e disillusioni che ci sono state. Tutte quelle cose che se non vivi quella situazione, non riesci a comprendere. Il modo migliore era quello di stabilire un contatto fisico con le persone e raccontare. […] E adesso, ancora di più devo dire, quando si parla di media, un aiuto enorme lo ha dato pure il documentario che è uscito su Netflix. Quello ha dato un aiuto enorme perché con Netflix siamo un po' usciti dai confini europei. C’erano stati altri documentari in Germania, in Francia, però Netflix, lo sappiamo, entra nei cellulari. Perché tanti giovani conoscono questa storia? Perché hanno Netflix sul cellulare e quindi se la sono vista. C'è stato quasi il passaparola nelle classi. È stato diffuso in 160 paesi. E io me ne sono accorto perché il giorno dopo che è uscito, è uscito il 20, dal 21 mi sono cominciati ad arrivare messaggi dai posti più disparati da cui non avrei mai pensato: dall'India, Bangladesh, Sud Africa, dappertutto. Quando l'ho rivisto mi è piaciuto com'è stato fatto, però non mi ha fatto chissà quale effetto, perché ho pensato che bene o male si raccontasse il 30% della storia. È stato politicamente corretto dal mio punto di vista. Però per la gente no, per la gente è stato pesante quello che ha visto, per quelli che non conoscevano questa storia. Infatti, mi sono sempre chiesto: possibile che una persona che sta dall'altra parte del mondo, guarda questo documentario e rimane talmente colpito da cercare su internet uno dei familiari per mandargli subito un messaggio di solidarietà? Lì, ho capito che come documentario aveva funzionato.
Probabilmente, quanto questa storia arriva alla gente è la misura dell'ingiustizia che avete subito. Com'è nata l'idea della serie Netflix?
L'hanno proposta loro. […] Doveva uscire molto prima, perché il primo contatto con la produzione ce l'ho avuto tre anni fa, poi è successo del covid, quindi si è fermato tutto. All'inizio doveva essere più un documentario investigativo. E a me faceva comodo, perché fare un documentario investigativo voleva dire che loro avrebbero potuto, coi mezzi anche economici che hanno, andare in procura e prendersi tutti quanti i documenti. È stato questo il progetto per un periodo, poi è cambiato perché è cambiato il responsabile di Netflix in Europa. […] Loro mi hanno prospettato un modo diverso di fare il documentario. Mi hanno detto: «Considera che dobbiamo mandarlo in ogni angolo del mondo, perciò noi preferiamo fare un documentario più lineare che si basi sugli eventi cronologici». Quindi, senza entrare troppo nei particolari, perché, dice, sennò la gente non segue.
Tu che valutazione hai fatto per capire se avesse senso andare avanti con questo progetto?
Per me, qualunque cosa che potesse parlare di Emanuela, andava benissimo. Il fatto che loro mi avessero garantito che la serie avrebbe raggiunto almeno 160 paesi era sufficiente. Voglio dire, la storia di Emanuela sarebbe stata conosciuta anche all’estero. E per me era importante perché più persone la conoscono più c'è pressione nei confronti di chi sa le cose. Il fatto che il Vaticano ha aperto un'inchiesta non credere che non abbia una correlazione, non dico con il documentario di Netflix, ma con l'attenzione mediatica mondiale che c'è adesso, come dire: «Qualcosa bisogna fare». La Commissione alla Camera è partita sempre da questa situazione, perché Netflix ha alzato il livello di attenzione sulla storia. Questo è chiaro, si vede proprio. Ti ripeto, io lo vedo nelle scuole. Andavo pure prima nelle scuole, ma adesso mi scrivono continuamente.
Un altro problema di relazionarsi con i media è che, cercando di fare sensazionalismo, talvolta pubblicano notizie false o distorte. Tipo il caso di Affari Italiani, su cui facesti un post molto critico.
Eh, quella è una cosa grave. E infatti l'hanno cambiato subito. Mi hanno scritto: «Scusa, è un collega che... ». Non puoi dare in mano a un collega una cosa del genere. Te pensa a quella notizia, se io non l’avessi vista, sarebbe girato un articolo secondo cui io avrei detto: «Il Vaticano mi ha proposto uno scambio: il corpo di Emanuela in cambio di un favore». Gli ho detto: «Fate quello che volete, ma cambiatelo. Non può andare una cosa così».
Come ti comporti quando accadono queste cose?
In questo momento so esattamente cosa fare. Ho fatto quel post critico su Facebook, perché so che lo vanno a vedere. Infatti mi ha chiamato subito, non so se era il direttore di Affari Italiani, e mi ha detto: «Scusa, cambiamo subito il titolo, non ci siamo resi conto». La frase è stata: «È un collega che ha fatto una cazzata». Questa è stata la giustificazione. Il giornalista non ha ascoltato evidentemente quello che ho detto. Non ha ascoltato proprio.
Lo riscontri questo come un problema comune?
Sì, ci devo stare attento. Questo giornalista potrebbe essere stato pure in buona fede, ha scritto questa cosa non rendendosi conto. Alcuni, però, sono in malafede. Fortunatamente il 99% delle persone mi appoggia. Però sai, purtroppo, quando diventi una figura pubblica, avrai sempre delle persone contro. E uno lo accetta. Ma pure dei giornalisti, che sono contrari a quello che dico. Qualcuno dice che me ne approfitto. All'inizio mi ci arrabbiavo, gli scrivevo. Mi dicevano addirittura che lo faccio per soldi, quando ormai il mio conto in banca è vuoto. Tutti mi dicono: «Vai a “Chi l'ha visto?” o altri programmi perché ti pagano», no. A parte pure se mi dessero 100 euro, non li vorrei mai. È la prima cosa che ho sempre detto. Ma non pagano. Quando ti invitano mica ti pagano. Il compenso per me è il fatto che mi danno la possibilità di parlare di Emanuela.
Per la questione dell’apertura di una Commissione parlamentare di inchiesta, ti sei incontrato con i presidenti di Camera e Senato. Sono stati entrambi disponibili?
Sì, il presidente della Camera, Fontana, che tutti mi dicevano essere molto cattolico e vicino alla Chiesa, è stato quello più favorevole ad accelerare i tempi per aprire la Commissione. Lui stesso mi ha detto: «Essere cattolico è un conto, accettare le provocazioni di uno Stato come il Vaticano è un'altra cosa». E sono provocazioni che non si possono accettare. Per 40 anni quell'atteggiamento non si può accettare. Mi ha detto: «Noi siamo uno Stato laico e quindi sono totalmente a favore. E per me si può avviare quanto prima». Lo stesso da parte del presidente del Senato. La cosa che mi è piaciuta è che per una volta i partiti, dalla destra alla sinistra, sono tutti d'accordo. Quantomeno su una cosa sono tutti d'accordo. Anche perché io ho sempre messo in chiaro dall'inizio con tutti che la questione di Emanuela non può e non deve avere un colore politico. […] Il fatto che ci sia una inchiesta aperta in Vaticano e una possibile commissione d'inchiesta aperta in Italia, beh secondo me da qualche parte deve portare. Da qualche parte deve portare, perché considera che alla Camera le udienze delle persone, a meno che non ci sia un omissis per ragioni particolari, sono pubbliche. Quindi chiunque poi può ascoltare. Cioè, se convocano Capaldo, per la questione della cosiddetta trattativa, poi la gente può ascoltare quello che ha detto. E se lì Capaldo dice esattamente le cose che ha detto a me, ha un peso. Il Vaticano poi non può dire: «Noi facciamo un'altra inchiesta». A quel punto, lo deve convocare per forza. Hanno fatto questo passo, secondo me, non rendendosi conto di dove li avrebbe portati, dico in Vaticano.
Dici che potrebbero essere stati così ingenui?
È difficile usare la parola “ingenui” parlando del Vaticano. Però, forse non si rendono conto... Non lo so. Nulla accade per caso. Non è che si sono svegliati la mattina e hanno detto: «Apriamo un'inchiesta». Non è possibile.
Hai mai avuto, nella tua esperienza personale, la sensazione di essere stato chiamato nei programmi e di aver ricevuto l’attenzione dei media più per poter sfruttare la carica emotiva del caso di tua sorella che per un reale interessamento?
In passato, soprattutto, ho percepito che a volte era così. Cioè, in questo momento su questa vicenda, su questa persona, sul mio caso, c'è un'attenzione, quindi lo facciamo venire qui. Ma io ti parlo non soltanto di programmi importanti, ma anche di quelli molto piccoli, di televisioni locali. Sai quanti mi hanno detto: «Dai vieni, poi lo fai girare sui social, così facciamo più visualizzazioni». […] Parlando dei programmi importanti, mi è capitato di percepire che ci potesse essere quella attenzione nei miei confronti o della storia perché in quel momento c'era l'attenzione generale. Però, poi, c'è stata una persona che mi ha fatto un po' capire le cose e adesso mi muovo in maniera diversa. Era proprio una persona legata a questi ambienti. Mi ha detto: «Non ti far usare mai dalle televisioni, ma usale». E io da quel momento le uso, non mi lascio usare. Le uso perché devo raccontare delle cose importanti e quindi uso il mezzo della televisione per raccontare quelle cose importanti. E se mi invitano per trattare di un argomento, io vado e parlo pure di un altro argomento che mi interessa a me trattare in quel momento.
Quindi la percepisci la differenza?
Si percepisce quando c'è dall'altra parte uno che vuol darti una mano perché ci crede in quella cosa e non lo fa soltanto per. Ci sono trasmissioni che sembrano così affezionate al caso e poi mi dicono: «Però se vai in quel programma, non vieni più qua».
È successo davvero?
Sì, è successo davvero [ride]. Oppure sono andato da un'altra parte, e mi fanno: «Perché sei andato là?». Cioè, a ‘sto livello.
Quali sono invece i risvolti negativi di essere diventato una figura pubblica?
Riscontro solo tantissimo affetto per strada. Le persone, se mi salutano, mi salutano come se fossimo amici di vecchia data. Quello con il taxi che si ferma al semaforo e mi fa: «Pietro, daje!», per dire. Ma pure fuori, da altre parti. Quella è una cosa positiva perché vedo che c'è l'affetto, la solidarietà della gente. Un aspetto negativo sono i cosiddetti “leoni da tastiera". Ci sono un paio di pagine e di gruppi dedicati alla storia di Emanuela, ma dicono solo pesta e corna di me. Ai primi tempi mi dispiaceva, rispondevo a tutti con la massima calma cercando di spiegare. Poi ho capito che ogni volta che spiegavo la cosa ripartivano dicendo le stesse cose. Quindi ho capito che c'era solo la volontà a criticare. Così ho detto basta, non li seguo e basta. Pure qualche giornalista. C'è un giornalista, te lo dico pure come si chiama, Nicotri. Non so per quale motivo, ma ce l'ha a morte con me, con quello che faccio. Tutto nasce dalla questione De Pedis, perché lui è amico della moglie, quindi difende a spada tratta De Pedis, dicendo che non c'entra niente, che non è come lo descrivono. La moglie mi diceva sempre: «De Pedis era un po' scapestrato da giovane, poi ha messo la testa a posto». La moglie è morta adesso. Questo giornalista mi accusa che io sono il suo assassino, perché io parlando in quel modo di De Pedis l'ho fatta ammalare e quindi è morta per colpa mia. - Cerca di screditarti insomma - Sì, ogni volta che faccio qualcosa. Se dico una cosa, lui commenta: «Le solite stronzate di Pietro, che si inventa questo e si inventa quello».
Con lui hai mai avuto modo di avere un faccia a faccia?
L'ho incontrato qualche volta, quando lo incontro poi diventa un agnello. Poi questo c'ha campato perché ha scritto quattro libri su Emanuela. Finché le persone insinuano dei dubbi su di me non mi frega niente alla fine. Dì quello che ti pare, tanto non mi importa. Però quando insinuano dei dubbi su Emanuela, tipo che non era proprio quella ragazza acqua e sapone, che magari aveva quei suoi giri di amici, che magari ha abusato di droghe... Quando dicono quelle cose pesanti, pur non avendola mai conosciuta, si vede che certe volte lo dicono, io me ne sono accorto in passato, per farmi intervenire, così loro poi hanno modo di scrivere altre pagine. Allora ho capito che non devo cedere alle provocazioni. Non l'ho mai detto, perché è brutto, cosa Nicotri una volta mi disse, per il fatto che io andavo in quel periodo a “Chi l'ha visto?”. In trasmissione parlavo di De Pedis e, voglio dire, se io devo parlare male di De Pedis, che secondo me ha avuto un ruolo, ne parlo. Non è un santo, anche se l'hanno messo dentro là sotto [nella Basilica di Sant’Apollinare] non è un santo, perché i suoi crimini li aveva commessi. Lui [Nicotri] mi criticava il fatto che io vado in televisione, secondo lui e secondo la moglie di De Pedis, come ho detto prima, per soldi, per essere famoso. Ma poi, famoso su ‘sta storia, cioè voglio dire... E una volta è arrivato a scrivermi, questa frase è bruttissima, non ho neanche il coraggio di ripeterla: «Tu sei lo stupratore del cadavere di tua sorella». Capito? Per dire che uso questa storia fregandomene di Emanuela, la uso per me. Questo è un giornalista poi. Me lo ha scritto con un messaggio privato. I messaggi che mi ha mandato non li potrei pubblicare per le cose che dice.
(9 marzo 2023)
Tratto da: express.adobe.com
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