Resta in carcere il geometra Andrea Bonafede, accusato di favoreggiamento per aver “prestato” la sua identità al boss
"A Messina Denaro dico di rispondere alla sua coscienza e convertirsi e di collaborare con la giustizia. Dobbiamo restituire al Paese sempre più legalità. La mafia si può battere con la giustizia sociale". Lo ha detto questa mattina, parlando del boss mafioso rinchiuso nel carcere dell'Aquila, don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e dell'Associazione Libera, oggi a Pescara nella cattedrale di San Cetteo, a margine di un incontro avuto con i ragazzi delle scuole cittadine. Matteo Messina Denaro è recluso proprio in Abruzzo, nel carcere dell’Aquila, dove è detenuto in regime di carcere duro. Intanto il geometra Andrea Bonafede, l'uomo che ha ceduto la propria identità al boss stragista, resta in carcere. Lo ha stabilito oggi il Tribunale del Riesame, dopo aver sciolto la riserva al termine dell'udienza, respingendo l'istanza contro la misura cautelare in carcere, presentata dall'avvocato Andrea Pasanante, legale del 59enne accusato di associazione mafiosa e favoreggiamento aggravato per aver prestato l'identità al capo mafia di Castelvetrano. Secondo l’avvocato, Andrea Bonafede ha agito dietro grave minaccia, dunque, in stato di necessità. La linea difensiva del legale è che Bonafede abbia assecondato le richieste del capomafia per paura, ma ha negato che il boss abbia esplicitamente minacciato il suo assistito. Una sorte di timore reverenziale, dunque, che derivava dal rilievo criminale del boss. L'avvocato ha raccontato inoltre che il geometra e il padrino si conoscevano da ragazzi e si sarebbero rivisti due anni fa. Casualmente, allora, Messina Denaro avrebbe chiesto aiuto a Bonafede che, dunque, non nega di avere sempre saputo chi era il suo interlocutore. Il legale ha inoltre detto che il capomafia, ormai certo di avere i giorni contati, si muoveva con una certa libertà in paese e che, sapendo di essere gravemente malato, aveva ridotto il livello di cautela sempre avuto. Argomentazioni che, secondo il pm Piero Padova sarebbero illogiche. Da cosa sarebbe derivato il timore visto che non c'erano state minacce esplicite? - ha replicato - e soprattutto visto che il latitante ormai certo di morire non era più, a dire dello stesso legale, il padrino di un tempo. Inoltre lo stato di necessità, per l'accusa, mal si concilia con una condizione che si è protratta per due anni. I giudici si sono riservati la decisione.
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