Letizia Battaglia. Anthologia, ZAC (Zisa Arti Contemporanee), marzo 2016
Foto © Olimpia Cavriani
Il folclore è una tavola imbandita che serve a nascondere l’orrore. Dietro la tavola, fuori dagli occhi, avviene ciò che non si può dire… La mafia è il trionfo della menzogna, è il rovescio che diventa verso, il sotto che viene a galla, il basso che si fa alto, il delitto che si trasforma in regola.
(Emma Dante, dalle note di regia di Cani di bancata, 2006)
Ma io, con il cuore cosciente
di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?
(Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, 1954)
DIMENTICARE PALERMO: MISSION IMPOSSIBLE
Apro una grande, pesante finestra al primo piano di un vecchio palazzo signorile. Appena sotto, una bellissima tettoia art noveaux: è l’entrata laterale degli artisti del Moulin Rouge. Sono a casa di Franco Zecchin, che è ormai un fotografo affermato anche a livello internazionale. Di passaggio a Parigi con P., la mia compagna di allora, Letizia aveva chiesto a Franco, che era in viaggio, se poteva sistemarci a casa sua una notte nella camera degli ospiti.
Siamo agli inizi di un nuovo secolo e millennio. Nel giugno del 2000 mi ero trasferito a Milano, ma la notizia è un’altra, e a molti, me compreso, sembrava tanto grave quanto inconcepibile: Letizia va via da Palermo. Al telefono, una volta, mi aveva raccontato della sua delusione e rabbia, gli stessi sentimenti che riversava in tante interviste di quel periodo, parlando di una città immemore ancor prima che ingrata «in cui niente e nessuno lascia traccia, città senza futuro in cui tutto si dimentica».
No, non era bastata la prima mostra (curata da Paolo Falcone e Melissa Harris) che Palermo – dopo trent’anni di impegno nella città – aveva dedicato a Letizia nel dicembre 2000, nel cartellone di quella che sarebbe stata l’ultima edizione del Festival ‘sul Novecento’1. Dal 2001 il clima politico è cambiato, ora al posto di Leoluca Orlando c’è un nuovo sindaco, un avvocato da qualche anno prestato alla politica, poco conosciuto ai palermitani, a differenza di chi, alle sue spalle, manovra da lungo tempo politica e affari.
Così, all’inizio di gennaio del 2004, sfidando il freddo, Letizia era partita in treno per Parigi dove contava di poter lavorare ancora con Franco Zecchin e anche con il grande Josef Koudelka2 che con lei aveva collaborato sin dagli anni Settanta per la sua agenzia Informazione fotografica (creata insieme a Zecchin). Sicuramente non era facile ricominciare una carriera a Parigi negli anni 2000. D’altra parte, l’attaccamento viscerale (e nel suo caso non è un modo di dire) alla città e alla famiglia (le tre figlie, i nipoti), certo anche la nostalgia, ebbero presto il sopravvento. Letizia ritorna a Palermo dopo circa un anno di autoesilio. Come avrebbe detto Attilio Bolzoni: «più di una volta ha provato a mettere distanza fra lei e la sua città, Palermo, che è come la sua pelle. È sempre tornata»3. Letizia non poteva vivere dentro una pelle non sua.
Rientrata a Palermo, nonostante la città fosse di nuovo in letargo, Letizia inizia, con la passione di sempre, a ricollegarsi nuovamente al mondo: ad esempio, accompagnerà il viaggio in Sicilia del giornalista e scrittore Alexander Stille dal cui libro4 il regista Marco Turco trarrà il documentario In un altro Paese (2006). È in quel periodo che si interessa più da vicino a una figura emergente del teatro nazionale, e non solo, la palermitana doc Emma Dante (classe 1967), anche lei accomunata dall’ostracismo a lungo riservatole da una città ‘matrigna’ (che per tanto tempo le avrebbe negato uno spazio). Solo nell’ottobre 2006 Emma Dante (la cui compagnia era stata da tempo scoperta e sostenuta produttivamente da istituzioni teatrali assai note come il CRT di Milano) debutta per la prima volta a Palermo con Cani di bancata, un’opera fortissima ed estremamente provocatoria. La Dante ci offre una visione matriarcale della mafia, il boss assoluto è infatti una donna, la “mammasantissima” che nutre i suoi tanti figli mafiosi seduti, ma spesso anche sospesi, di fronte a una tavola tanto riccamente imbandita quanto scomoda e precaria. Un lavoro che evoca la ritualità religiosa della mafia, ma dove si recita il “Madre nostra”. Con una (tra le tante) invenzione drammaturgica e scenografica, geniale, a nostro parere, proprio per il suo apparente “didascalismo”, nel finale dello spettacolo vediamo una grande carta geografica dell’Italia dove la Sicilia è al nord. La madre-padrona “dona ai figli una Italia capovolta”, dice la Dante che, sempre nelle note di regia, spiega: «In un’isola del nord di un’Italia capovolta c’è una città madrìce, un luogo primario, dove un popolo silenzioso, seduto attorno a una tavola imbandita, si spartisce l’Italia e se la mangia a carne cruda».5 Teatro crudele quello della Dante, dove il richiamo, più che mai attuale, a una Sicilia, e in primis al suo capoluogo, spolpata a ‘carne cruda’ inevitabilmente ci riporta a una delle prime opere che la imposero all’attenzione, anche fuori dai confini italiani, per la forza espressiva ed emozionale: Carnezzeria (così a Palermo, e solo a Palermo, vengono chiamate le macellerie).
Il lavoro di Emma Dante sarà sin dall’inizio seguito molto da vicino dalla rivista Mezzocielo che Letizia contribuì a fondare nel 1991 (insieme al lavoro, in altre discipline artistiche, di donne di generazioni diverse come Lina Prosa6, ancora nel teatro, Costanza Quatriglio nel cinema, Evelina Santangelo per la letteratura).
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Ciao Letizia
di Lorenzo Baldo