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Così ama definirsi Mario Bruno Belsito. E in questa definizione c’è tutto l’impegno, la volontà di realizzazione e la serietà del progetto educativo, la valutazione dei risultati, al di là delle enfasi retoriche, della commozione di un solo giorno, dell’atto di presenza formale o istituzionale, a cui le pratiche antimafia susseguitesi nel tempo ci hanno spesso abituato. Un operaio, ovvero uno abituato a fare e non a parlare. A mettere insieme costruire mattone dopo mattone, con professionalità, cosciente che si tratta di un lavoro non a termine, che lo accompagnerà per tutta la vita. Con la differenza che un operaio lavora per guadagnare, Belsito ce ne mette sempre di tasca e il suo guadagno è dato solo dalla valutazione se il suo lavoro ha lasciato un segnale nello sviluppo della personalità dei propri discenti. Quasi sempre una traccia resta.
La prima volta che l’ho conosciuto, seguito da un esercito di 400 ragazzi che era riuscito a portare da Bergamo a Cinisi, assieme al collega Gaspare D’Angelo, mi fece l’impressione di una persona seria, un po’ sulle sue, riservato, ma con un viso in cui si poteva leggere il percorso, la fatica e la soddisfazione di avere realizzato qualcosa fuori dal comune, ovvero far capire agli alunni delle varie scuole del nord partecipanti che la mafia non è un fenomeno siciliano o calabrese, ma un problema e un reticolo che avvolge tutta l’Italia, anzi un fenomeno planetario in continua espansione. In parole povere, uno che sapeva il fatto suo. Ho rafforzato questa impressione ogni volta che mi sono reso conto delle difficoltà, dell’ansia, dello stato d’animo e dell’ostinazione che sta dietro la preparazione di un viaggio d’istruzione di questo tipo: il consenso delle famiglie, quello della scuola, la raccolta dei fondi, i biglietti, l’albergo dove pernottare, il ristorante in cui mangiare, i vari mezzi di spostamento, i contatti e gli incontri con i personaggi che possano lasciare “un segno” nei ragazzi. Tutto da solo, dove l’unica nota positiva è l’entusiasmo, l’interesse, l’affetto dei ragazzi, che comunque vanno opportunamente preparati, onde evitare che un momento d’impegno civile si trasformi in un’opportunità di divertimento personale.
Nel libro Belsito alterna i momenti personali, a partire dalle origini calabresi, all’infanzia, agli studi universitari, al trasferimento al Nord. La sua rete di contatti e di conoscenze, pazientemente costruita negli anni, gli consente di avere anche conoscenze della vita e delle scelte dei suoi personaggi, spesso ignorate anche da chi è vicino alle tematiche della lotta contro la criminalità mafiosa. L’ascolto della testimonianza è una scelta che associa il contatto diretto con il ricordo, la ricostruzione dell’esperienza diretta, la proiezione soggettiva del profilo del “vero eroe” e ne empatizza il messaggio essenzialmente da un aspetto emotivo lasciando la voglia di ripercorrerne “le orme”.
Tra le cose di cui va orgoglioso e, ben a ragione, è l’istituzione del premio Valerioti-Impastato, realizzato, a Rosarno, nel nome di due giovani vite impegnate politicamente e assassinate dai mafiosi. Il premio, diventato uno dei più importanti del suo campo, ogni anno tributa un riconoscimento a personaggi che hanno lasciato un chiaro segnale nel mondo dell’antimafia.
Il libro non rappresenta un semplice racconto e un’autobiografia, ma ricostruisce la realizzazione di percorsi educativi, di testimonianze, di difficoltà e soddisfazioni, a dimostrazione che l’impegno, la scelta personale, il lavoro quotidiano per portarla avanti, la capacità di non arrendersi davanti alle inevitabili difficoltà, sono la via maestra per formare coscienze civili, per trasmettere valori e per evitare, ognuno con il proprio contributo, a partire dalla scuola, che i ragazzi di oggi non corrano il rischio di essere fagocitati dall’indifferenza e dall’incapacità di stare assieme per costruire progetti e proposte di realizzazione di una società nuova e migliore di quella che lasciamo.

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