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Sabato l’11° edizione dell’iniziativa promossa da Libera con ospiti anche il testimone di giustizia Cutrò, il giudice Balsamo e la pm Picozzi

A Santa Margherita Belice, borgo del “gattopardo”, si è tenuta sabato sera l’undicesima edizione de “L’alba della legalità”, un’iniziativa promossa da Libera e dall’Associazione Antimafia Giuseppe e Paolo Borsellino in collaborazione con l’agenzia Ansa.
Sul palco allestito si sono alternati alcuni dei familiari delle 1055 vittime innocenti della mafia presenti in Italia. Tra questi, Pasquale e Antonella Borsellino, promotori dell’iniziativa e fratelli dell’imprenditore Paolo, Luciano Traina, ex poliziotto e fratello di Claudio, morto ammazzato in via d’Amelio, Graziella Accetta, madre del piccolo Claudio Domino e Claudio Burgio, figlio di Giuseppe La Franca. Tra loro si danno del “fratello” e della “sorella”. Hanno ricordato i loro cari, caduti per mano mafiosa, hanno espresso le loro frustrazioni e manifestato le loro speranze spinte da un’unica richiesta: quella di verità e giustizia.
La cosa che fa male a noi familiari è il fatto che la verità e la giustizia continua a venirci negata dopo trent’anni. Il fatto che trent’anni sono tanti e sono pieni di misteri”, ha esordito Antonella Borsellino, sorella di Paolo e figlia di Giuseppe, il primo ucciso il 21 aprile 1992 e il secondo il 17 dicembre dello stesso anno a Lucca Sicula. A seguirla è stato il fratello Pasquale, che con lei ha seguito i lavori dell’iniziativa di sabato:
Noi familiari abbiamo l’anima e la coscienza frammentata. A mio fratello gli hanno sparato in faccia con la lupara a mio padre 42 colpi di kalashnikov”, ha ricordato. “Non vorremmo mai che il ricordo fosse un rituale di parole vuote. Ricordare Falcone e Borsellino, ricordare mio padre e mio fratello e più di mille vittime innocenti di questo paese significa voler essere tutti i giorni una spina nella coscienza di questo Paese”, ha affermato.


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Noi andiamo nelle scuole, non solo perché vengano ricordati i nostri parenti ma perché siamo preoccupati per il futuro. Perché un paese che non riesce a dare verità e giustizia è un paese che ha compromesso il proprio futuro”, ha detto aggiungendo che “c’è un pezzo di Stato che va processato in questo Paese”. A seguire è stato il turno di Graziella Accetta, madre del piccolo Claudio ucciso da Cosa nostra con un colpo di pistola il 7 ottobre 1986 a San Lorenzo. Graziella Accetta e suo marito Ninni Domino, assente per ragioni di salute, è in attesa di conoscere la verità su quell’agguato terribile da 36 anni. “I 30 anni di Claudio sono passati e non c’erano istituzioni presenti quel giorno ma continuiamo ad avere fiducia nelle istituzioni sane”, ha detto Accetta.


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Quando uccisero mio figlio mi dissero ‘lascia questa terra infame’ ma io dissi di no, la terra di Claudio non la lascio in mano agli assassini, io combatterò gli assassini. La terra di Claudio non è solo terra di mafia ma terra d’amore, di giustizia, di musica, cultura, arte e bellezza. Noi - ha spiegato - andiamo nelle scuole non solo per parlare di Claudio ma per parlare dei 125 bambini uccisi dalle mafie. E abbiamo creato il progetto ‘giù le mani dai bambini’. Con Claudio Domino la mafia ha perso”. La famiglia Domino non ha mai avuto un processo, né verità né giustizia “ma finché avremo gli occhi aperti”, ha assicurato la madre del bambino, “noi le cercheremo”. Dopo di lei, sul palco de “L’Alba della legalità” è salito Claudio Burgio, figlio acquisito di Giuseppe La Franca, l’avvocato ucciso il 4 gennaio 1997 per aver difeso i suoi terreni dai pascoli abusivi dei mafiosi di Partinico. Anche lui fa parte di quel 80% di familiari di vittime innocenti di mafia che è ancora senza verità e giustizia, come appuntò il fondatore di Libera Don Ciotti lo scorso 21 marzo.

Il bisogno di verità e giustizia nelle parole del sindaco
Sul palco, davanti a diverse decine di persone sedute nel Cortile di Palazzo Filangeri di Cutrò, è salito anche Gaspare Viola, sindaco di Santa Margherita Belice che, portando i saluti del comune ha espresso una riflessione sull’iniziativa e sui trent’anni dalle stragi al quale è stato dedicato l’evento.
E’ un trentennale amaro”, ha esordito al microfono. "L’eredità di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non viene tenuta in considerazione, abbiamo assistito a depistaggi imbarazzanti. Questo è uno Stato che non ha fatto i conti con la sua storia, noi siamo cittadini di uno Stato di cui non conosciamo i retroscena e la verità su questi fatti che sono la nostra storia contemporanea. Questo è un fatto gravissimo”, ha sottolineato il primo cittadino eletto a giugno scorso.


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Perché mina ala base il sentimento di appartenenza di ognuno di noi a questo Stato. Questi sono anni in cui la magistratura, attraverso disegni di delegittimazione è stata colpita, mai come ora. La politica tende a sottrarsi sempre di più al controllo della legalità da parte della magistratura. Non può essere, a distanza di trent’anni - ha aggiunto - che il bisogno di verità e giustizia sia affidato solo ai parenti delle vittime e ai superstiti. Noi dobbiamo continuare questa ricerca tutti insieme. Noi vogliamo la verità su ciò che è accaduto”. Il sindaco ha poi espresso, tra le altre cose, la sua indignazione quando “ex presidenti della Repubblica hanno ingaggiato bracci di ferro con la procura di Palermo, per impedire l’accertamento della verità, per disporre la distruzione di prove, per combattere contro i magistrati che si impegnano per capire quello che è successo”. “Fuori dalla legittima matrice celebrativa dobbiamo dirle queste verità amare - ha detto Viola concludendo il suo intervento - perché ci siamo dentro e dobbiamo venirne fuori per continuare le azioni e i pensieri e i valori in cui credevano Falcone, Chinnici, Saetta e tutti coloro che non vengono mai ricordati e che hanno creduto sinceramente nello Stato”.

“Mi hanno ucciso”, la rabbia di Ignazio Cutrò
A seguire è stato il turno di Ignazio Cutrò, imprenditore minacciato dalla mafia e testimone di giustizia, che ha riassunto in pochi minuti il calvario istituzionale di reticenze e omissioni che lo hanno ulteriormente esposto e danneggiato dopo aver fatto il suo dovere da cittadino: denunciare. Ricevendo il premio “gattopardo”, Cutrò ha ricordato “due eroi”, Giuseppe e Paolo Borsellino. “Paolo viene ucciso perché voleva difendere la propria azienda. Suo padre era alla ricerca di verità e giustizia e venne ucciso in pubblica piazza. Ecco questo succede a chi vuole cambiare in Sicilia”, ha detto Cutrò. “Oggi però c’è un altro tipo di mafia, una mafia istituzionale che ti uccide da vivo come ha fatto con me e questa potrebbe essere forse la pena peggiore”. Grazie alle testimonianze dell’imprenditore bivonese che rifiutò di pagare i suoi estorsori, venne avviata l’operazione “Face off” nella quale vennero arrestati i fratelli Luigi, Marcello e Maurizio Panepinto e che portò nel gennaio 2011 a un totale di 66 anni di carcere. Per lui però fu solo l’inizio di un calvario, come ha raccontato sabato durante la serata. “Mi hanno fatto uscire dal programma nel gennaio 2018 perché nel 2016 scrivono che non rischiavamo più la vita. Noi eravamo felici perché ci saremmo ripresi in mano la nostra vita”, ha ricordato.


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Poi, però, il 23 maggio 2018, dall’operazione “Montagna” “emergono intercettazioni ambientali in cui boss vicini alla cosca mafiosa corleonese mi hanno condannato a morte. Si fece un’interrogazione parlamentare, il referente territoriale di Agrigento scrisse che è un’invenzione di ANTIMAFIADuemila che dicono che sono loro che se la sono inventata. Non è così perché io oggi sono parte lesa nel processo ‘Montagna’. Quindi c’è qualcosa che non funziona in Italia. Io rifiuto la scorta”, ha continuato nel suo racconto il presidente della associazione nazionale Testimoni di Giustizia. “Ma io e la mia famiglia abbiamo scelto da che parte stare, dalla parte giusta, dalla parte della legalità perché non ho chinato la testa. Hanno cercato di spezzarmi. Mi hanno secretato due perizie che potevano salvare la mia azienda. Secretate per 50 anni. Ho sputato sangue 10 anni per farle desecretare e ci sono riuscito a settembre dell’anno scorso. Con in mano le due perizie il perito scrisse che la mia impresa era meritevole, aveva diritto a elargizioni. La seconda perizia ha fatto i nomi di chi mi ha distrutto l’azienda, non c’è il nome di Totò Riina, ma i nomi della prefettura di Agrigento, Inps, Inail e Agenzie delle Entrate. L’azienda Ignazio Cutrò poteva essere un fiore all’occhiello in Sicilia. Mi hanno ucciso da vivo”, ha lamentato. “Poche settimane fa sono venuto a scoprire che dietro una contrattazione fatta a gennaio col mio legale mi hanno pagato i debiti senza consultarmi. Mi rimaneva una cosa da fare: denunciare i ministri dell’Interno e i prefetti di Agrigento che si sono susseguiti dal 2011 ad oggi. Mi sono difeso nei processi contro i mafiosi e ora mi devo difendere pure da una parte di istituzioni. Ecco perché il 9 aprile 2018 ho deciso di non prendere più la scorta. Io finché avrò respiro sarò qui, perché sono siciliano e difendo la mia terra”, ha terminato.


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Falcone-Borsellino, parola a magistrati e sopravvissuti
A chiudere la serata è stata la conferenza sui trent’anni dalle stragi di Capaci e via d’Amelio in cui morirono Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Francesca Morvillo e gli agenti delle loro scorte Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina. A ricordarli sono stati i loro colleghi rimasti miracolosamente sopravvissuti, come ha detto Antonio Vullo, sopravvissuto all’attentato di via d’Amelio. “Se mi trovo qui è per un miracolo”, ha affermato. “Ripensandoci non so come ho fatto a uscire da quell’auto. E’ stato un miracolo, non una fortuna, perché vivere come superstite non è facile. Per noi è difficile ma lo abbiamo fatto senza orgoglio, non ci siamo tirati indietro. Eravamo veramente orgogliosi e felici di stare con il giudice Borsellino perché era una persona unica. Era come un familiare, un amico”. Con lui ha parlato il collega Luciano Traina, che ha ricordato le fasi immediatamente successive all’autobomba che travolse il fratello Claudio e il depistaggio attuato dall’ex questore Arnaldo La Barbera, e il collega Angelo Corbo, sopravvissuto alla strage di Capaci insieme a Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e l'autista giudiziario Giuseppe Costanza.


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Rimanere vivo in una strage come quella di Capaci o quella di via d’Amelio ti fa sentire in colpa e ti ci fanno sentire anche quando non si viene ricordati”, ha detto Corbo. “Non si nominano mai i sopravvissuti. Noi paghiamo una colpa che noi non abbiamo. Non abbiamo fatto nulla per rimanere vivi”. “Io non sono scappato, ho continuato a fare lo scudo umano”. “Come noi non dimentichiamo quelle macerie ci piacerebbe essere ricordati anche nelle commemorazioni ufficiali”, ha concluso. Nel corso del dibattito hanno poi preso il microfono il procuratore aggiunto di Palermo Anna Maria Picozzi e il presidente del Tribunale di Palermo Antonio Balsamo. Il giudice è intervenuto su quanto emerso nell’ambito della strage di via d’Amelio di cui si è occupato presiedendo la Corte d’Assise di Caltanissetta nel processo Borsellino Quater, passato in giudicato, e accennando anche alla strage di Capaci. Balsamo che ha condannato all'ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati della strage e i "falsi pentiti" Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia, ha detto che “uno dei motivi principali per cui abbiamo ritenuto necessario trasmettere gli atti alla procura di Caltanissetta, è stata una possibile finalità del depistaggio riguardante l’occultamento della responsabilità di altri di centri di potere per la strage di via d’Amelio sulla base di una serie di dichiarazioni molto significative che ha fatto il collaboratore di giustizia Antonino Giuffré, una delle persone più vicine a Bernardo Provenzano”. “Questo pentito ha riferito delle tastate di polso di una serie di contatti preventivi fatti da Totò Riina con personaggi di primo piano del mondo economico e politico prima di dare avvio alla stagione stragista”, ha spiegato.


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Per la strage di Capaci si riscontra un altro elemento importante, di cui si parla nella sentenza Capaci Bis, cioè che la strage con tutta la sua natura terroristica non è la prima opzione che viene ideata da Cosa nostra, c’è una fase precedente che si sviluppa nel mese di febbraio del 1992 subito dopo la conclusione del maxi processo con la missione romana di Cosa nostra alla quale partecipò anche Matteo Messina Denaro. Una missione conclusa il 4 marzo 1992.” “Sono date di cui abbiamo certezza assoluta”, ha affermato. “La missione romana avrebbe potuto tradursi con l’eliminazione di Giovanni Falcone, sicuramente con modalità molto più facili rispetto alla strage di Capaci che presupponeva un livello di competenza tecnica laboriosa. Totò Riina, che in un primo momento organizza la missione romana, a Vincenzo Sinacori disse di tornare perché ‘ci sono cose più grosse per le nostre mani’. Sul perché di questa decisione c’è una grossa incognita e anche per questo penso sia importante un accertamento completo. Questo per dire che il tema della ricerca della verità non riguarda solo la strage di via d’Amelio per la quale, va ricordato, ci sono una serie di punti tuttora oscuri”. I motivi principali per cui sono stati trasmessi gli atti a Caltanissetta sono tre, ha riferito Balsamo. “Il primo è il possibile occultamento come finalità del depistaggio della responsabilità di centri di potere esterni che percepivano come un pericolo l’attività di Borsellino. Il secondo è l’eventuale collegamento tra il depistaggio e l’eventuale sottrazione dell’agenda rossa del magistrato. Una sottrazione che avviene mentre ancora c’è quella scena di guerra drammatica che abbiamo visto in quelle immagini che continuano a scuoterci nel profondo dell’animo. Il terzo aspetto - ha spiegato - è quello dell’eventuale finalità di occultamento di una fonte non palesata alla quale è possibile che risalgano quei nuclei di verità che stavano dietro una serie di collaborazioni con la giustizia incontestabilmente false. Io credo quindi che ci sia molto da fare e che allo stesso tempo sia stato fatto molto. Credo però - ha concluso - che sia giunto il momento di un impegno corale di tutte le istituzioni”.

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