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Così ricordiamo la giovane “picciridda” che era entrata nel cuore di Borsellino

"Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io l'unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta".
Sono le ultime parole di Rita Atria, la “picciridda” di Paolo Borsellino, scritte poco prima di lanciarsi dal settimo piano di un palazzo di viale Amelia a Roma, dove viveva in segreto in quanto testimone di giustizia. 
Un gesto eclatante appena una settimana dopo la strage che uccise il magistrato, da lei considerato come un padre, e gli uomini della scorta. 
Lei che all'età di 17 anni aveva trovato il coraggio di ribellarsi a Cosa nostra, a quella famiglia che era inserita in certe dinamiche in un territorio, quello di Partanna che apparteneva al mandamento controllato dai Messina Denaro. 
Già nel 1985, all'età di undici anni, Rita Atria aveva perso il padre Vito Atria, mafioso della locale cosca ucciso in un agguato mentre si trovava in auto ad aspettare il garzone che lo aiutava nelle sue terre. 
Alla morte del padre Rita si legò in particolare al fratello, Nicola, ed alla cognata, Piera Aiello. E proprio dal primo, anch'egli mafioso, aveva raccolto le più intime confidenze sugli affari e sulle dinamiche mafiose a Partanna. 
E Nicola le ripeteva continuamente che, un giorno o l’altro, avrebbe vendicato il padre. Ma arrivarono prima i suoi nemici con un sicario che, il 24 giugno del 1991, lo uccise. 
Piera Aiello, che era presente all’omicidio del marito, denunciò i due assassini iniziando a collaborare con la polizia.
Anche la giovane Rita Atria, a soli 17 anni, nel novembre 1991, decise di seguire le orme della cognata, cercando, nella magistratura, giustizia per quegli omicidi. 
Il primo magistrato a raccogliere le sue rivelazioni fu proprio Paolo Borsellino (all'epoca procuratore di Marsala). Le loro deposizioni consentirono di fare arrestare diversi mafiosi e di avviare un’indagine sull’assai discusso Vincenzino Culicchia, per trent’anni sindaco, o meglio padre/padrone di Partanna.
Con Borsellino si creò un legame fortissimo con il giudice che “adotta” Rita tanto che la ragazza trascorse molto tempo con lui e la moglie, come una di famiglia.  Lei non aveva colpe, non aveva mai commesso alcun reato. 
Rita Atria è stata una ragazza coraggio, un'eroina capace di rinunciare veramente ad ogni cosa, arrivando persino a denunciare la propria famiglia. 
La madre, che già l'aveva ripudiata, non partecipò al funerale e dopo la sua morte distrusse, con una violenza inaudita, la lapide a martellate perché, con le sue scelte, la figlia ribelle aveva “disonorato” la famiglia. 
Ma Rita Atria non era uno “sbirro” ma una giovane ragazza che aveva deciso di sorridere alla vita inseguendo un ideale vero di giustizia.
Le parole scritte poco prima di morire ancora una volta sono di denuncia e lotta contro il “sistema”. 
Una sorta di “testamento morale” che ci viene tramandato e che vale la pena ricordare a trent'anni di distanza. Parole importanti come quelle scritte nel tema di maturità del 5 giugno 1992.
Il tema d’italiano chiedeva di riflettere sulla strage di Capaci, da poco accaduta. La "picciridda" non poteva neanche immaginare cosa sarebbe accaduto da lì a poco, quando un nuovo boato avrebbe scosso la città di Palermo.  
“L'unica speranza è non arrendersi mai - scriveva - Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivranno contro tutto e tutti. L'unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo”.

Foto © Shobha

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