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Archiviata la pista nera per assenza di analogie

Dopo oltre 40 anni proseguono le indagini della procura di Palermo sulla pista mafiosa per dare un volto ai killer del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella. Ormai è impossibile trovare analogie fra le armi dei Nar e i proiettili sparati per uccidere il fratello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, così come la targa dell’automobile utilizzata dal commando non sarebbe collegata ai Nuclei Armati Rivoluzionari (come abbiamo già ampiamente documentato). Già i giudici della corte d’assise d’appello avevano suggerito di percorrere la pista mafiosa dopo aver condannato come mandanti i boss della Cupola e assolto i terroristi dei Nuclei armati rivoluzionari Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini. Ora il focus è su Nino Madonia: storico boss e reggente del mandamento di Resuttana; uno dei sicari utilizzati da Totò Riina per i delitti eccellenti; attualmente condannato all’ergastolo per l’omicidio del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, del segretario del Pci Pio La Torre, del commissario Ninni Cassarà, e di recente condannato anche per l’assassinio del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio uccisi a Villagrazia di Carini il 5 agosto ’89 (un delitto, anche questo, che cerca ancora giustizia); nonché soggetto indicato da alcuni collaboratori di giustizia come uomo legato ai servizi segreti.
Il nome Madonia, oltre che per la reggenza del mandamento in cui è stato consumato l’omicidio, rientra nei fascicoli di indagine anche per la somiglianza che lo lega al Fioravanti. “Esaminando le fotografie - avevano scritto i giudici della terza sezione della Corte di assise d’appello di Palermo (10 ottobre ’98) sui cosiddetti "delitti politici" - balza all’evidenza una solare somiglianza tra i due che hanno tratti somatici molto simili sia con riferimento al colorito degli occhi, all’altezza, al taglio e al colore dei capelli e comunque ai tratti complessivi del viso, anche l’età dei due, poi, appartiene alla stessa fascia”.  Secondo i giudici di assise di appello “nell’ottica di un delitto voluto e deliberato dalla commissione all’unanimità”, non reggeva “sul piano logico, l’impiego di killer esterni all’organizzazione mafiosa”. “L’ottica dello scambio di favori - si legge nella sentenza - ha un senso per i terroristi neri che avrebbero tratto grande vantaggio dall’aiuto della mafia, ben più radicata nel territorio. Lo stesso non è a dirsi per Cosa nostra, alla quale non fanno difetto né armi di qualsiasi tipo, né killer abili e spietati”.
Una tesi - quella dei killer esterni - sconfessata anche da diversi collaboratori di giustizia ritenuti attendibili, tra cui Tommaso Buscetta, Gaspare Mutolo e Francesco Di Carlo. E poi ancora, ecco il riferimento a Nino Madonia: "Tutti i collaboratori hanno altresì escluso ogni coinvolgimento di personaggi esterni all'organizzazione mafiosa nel delitto ed in particolare di terroristi neri, indicando la maggior parte in Nino Madonia il killer che si avvicinò a Mattarella per sparargli". "I giudici - aveva affermato l’avv. Fabio Repici (attualmente legale di parte civile della famiglia di Nino Agostino) - nel 1998 scrivono, peraltro, che Nino Madonia faceva parte del gruppo di fuoco a disposizione della commissione e che, altro particolare di non poco conto, che Nino Madonia somigliasse moltissimo a Fioravanti, come lui aveva occhi chiari e l'espressione degli stessi era glaciale".

Ma Falcone ci credeva
Resta l’incognita Falcone. È noto che il magistrato assassinato nella strage di Capaci, assieme alla moglie Francesca Morvillo - anch’essa magistrato - e tre agenti di scorta (Schifani, Dicillo e Montinaro) stesse seguendo la pista nera dietro il delitto Mattarella. Ma perché?
Una pista investigativa nata innanzi tutto dalla testimonianza di Irma Mattarella, la moglie di Piersanti Mattarella, la quale aveva descritto l’assassino del marito: occhi di ghiaccio e andatura ballonzolante, quasi identico al capo dei Nar, Giuseppe Valerio Fioravanti. Da quell’accusa l'ex terrorista nero sarà poi assolto in via definitiva. Falcone morirà prima.
Molti anni dopo, nel 2018, questa strada viene ripresa dal procuratore Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Salvatore De Luca e dal sostituto Roberto Tartaglia, oggi vicecapo del Dagl (Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri).
Di recente anche la trasmissione “Report” di Sigfrido Ranucci è tornato ad indagare sull’omicidio Mattarella. In una puntata di fine maggio, il giornalista Paolo Mondani, indagando sul caso, ha ricostruito alcune dichiarazioni fatte dall’estremista Alberto Volo, professore palermitano, ai pm circa alcuni incontri avuti con Falcone a partire dal 1989. A Falcone, il professore aveva parlato delle confidenze ricevute, a suo dire, dall’estremista nero Francesco Mangiameli, altro personaggio toccato da “Report”, sull’omicidio Piersanti Mattarella. Poco prima di essere ucciso da Valerio Fioravanti nel settembre 1980, Mangiameli gli avrebbe confidato che “l’omicidio Mattarella era stato deciso a casa di Licio Gelli” e che ad uccidere il politico siciliano sarebbero stati i terroristi Gilberto Cavallini e Valerio Fioravanti stesso. Sul movente sempre Mangiameli “mi precisò che l’omicidio era stato provocato dalle aperture al Partito Comunista in quel periodo in Sicilia di cui Mattarella era il principale sostenitore”. Ma i giudici che hanno assolti Cavallini e Fioravanti da queste accuse non hanno sposato questa pista. Tuttavia, “Report” però ha ricordato l’audizione di Falcone alla Commissione Antimafia del 22 giugno del 1990 in cui si comprende che il magistrato credeva alla pista nera per quel delitto. “Stefano Alberto Volo è il migliore amico di Francesco Mangiameli - disse in trasmissione il magistrato Roberto Tartaglia - quello che Volo alla fine verbalizza con Giovanni Falcone, in estrema sintesi, è che lui ha saputo da Mangiameli che l'omicidio di Piersanti Mattarella è stato realizzato da Fioravanti e da Cavallini. E che questa decisione nasce da una volontà politica e massonica che ascrive direttamente” in quei verbali “alla volontà di Licio Gelli di arginare definitivamente l'apertura a sinistra della Democrazia Cristiana e di interrompere il nuovo tentativo di riprendere il vecchio discorso lasciato tragicamente in sospeso con il sequestro Moro”.
In conclusione, a distanza di 42 anni, nonostante le indagini e i documenti a disposizione degli organi inquirenti, il delitto del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella resta ancora un mistero. Resistono ancora dubbi e incognite. Ciò che è certo è che l’omicidio Mattarella sotto l’apparente causale mafiosa cela una sottostante causale politica fatta di cointeressenza tra ambienti istituzionali, eversivi e mafiosi.

Foto © Archivio Letizia Battaglia

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