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“Bolsonaro ha fermato le indagini, non la corruzione in Brasile”

17 marzo 2014. È stato il 'giorno uno' di Lava Jato, la più grande indagine sulla corruzione della storia del Brasile. Cinquecento persone indagate, quasi due miliardi di dollari pagati in tangenti e un intero sistema politico-imprenditoriale crollato sotto i colpi della Procura di Curitiba. A distanza di otto anni, le indagini sono state fermate dalla politica e i magistrati che le hanno condotte sono stati chiamati a rispondere del loro operato da diversi organi della giustizia amministrativa.
Ecco perché l’anniversario di Lava Jato ha un sapore amaro per Carlos Fernando dos Santos Lima, esponente di spicco di quel pool di procuratori brasiliani che sin da quel marzo del 2014 coordinò le indagini: “Come sempre capita in Brasile, le inchieste più interessanti iniziano con piccoli casi di riciclaggio di denaro”. E così è stato anche per Lava Jato, nata grazie ad una serie di intercettazioni telefoniche che condussero ad Alberto Youssef. Conosciuto nel Paranà per essere ‘il re dei doleiros’, cioè il broker dei dollari specializzati nel trasformare in denaro legale i fondi neri che i paperoni brasiliani custodivano nei paradisi offshore. “Era già stato indagato dieci anni prima nel caso Banestado, ma aveva scelto di collaborare con noi - ricorda l’ex magistrato Lima - accettando di non commettere più reati per dieci anni”. Beccato di nuovo nel caso Lava Jato, aveva violato le regole dell’accordo stretto con la magistratura e rischiava una dura condanna. Qualche giorno più tardi, i magistrati ritrovarono la fattura d’acquisto di una Land Rover Evoque, pagata da Youssef ma intestata a Paulo Roberto Costa, ex direttore dell’ufficio acquisti della Petrobras, colosso pubblico del petrolio brasiliano. “Da quel momento la valanga si è messo in moto poiché sia Costa che Youssef decisero di parlare”. I due raccontarono che dentro la Petrobras si era formato un cartello di imprese, costituito dalle principali aziende di ingegneria civile del Paese, che si spartiva gli appalti della compagnia, pagando tangenti alla classe politica che in questo modo riusciva a finanziare faraoniche campagne elettorali. Queste rivelazioni spinsero la Procura di Curitiba a creare un pool di magistrati, esattamente come accadde a Milano per Mani Pulite. “In Brasile, si ricorre a questa particolare struttura quando vi è bisogno di grande attenzione attorno ad un caso. Credo fosse l’unica soluzione per supportare l’enorme mole di lavoro che c’era bisogno di fare” - continua l’ex magistrato di Lava Jato. Nessuno sapeva dove sarebbero potute arrivare le indagini, anche perché tutti i precedenti grandi casi di corruzione erano finiti in un nulla di fatto. “Le operazioni Castelo de Areia e Boi Barriga erano state affossate per interferenze della politica. Proprio per questo, durante l’inchiesta Lava Jato, avevamo scelto di informare i cittadini su ciò che stava emergendo dalle indagini, ad esempio attraverso conferenze stampa oppure caricando gli atti da noi prodotti nel sistema del processo elettronico della Justiça Federal che è aperto a tutti. In questo modo, potevamo proteggere il nostro lavoro garantendo il principio di trasparenza degli uomini pubblici. Era la classe politica che pensava di godere del diritto alla privacy”. Finirono al centro dello scandalo le forze politiche che supportavano il governo del Partido dos Trabalhadores - PT dell’ex Presidente Lula, ma anche i partiti di opposizione: “Soprattutto loro credevano che ci saremmo limitati alle forze governative ed è il motivo per cui oggi l’intera classe politica è ostile alla Lava Jato: perché abbiamo svelato come vengono finanziate le elezioni in Brasile”. Dagli appalti per le grandi raffinerie di petrolio alla ristrutturazione degli stadi per la coppa del mondo 2014, passando ai bandi di gara per il terzo reattore nucleare a Rio de Janeiro fino all’arresto dell’ex Presidente Lula. Il tornado Lava Jato si è abbattuto su tutta la classe politica brasiliana favorendo indirettamente l’elezione a Presidente di Jair Bolsonaro che, come primo atto, propose a Sergio Moro, giudice simbolo dell’inchiesta, di diventare ministro della giustizia. “In quei giorni - rivela l’ex procuratore Lima - dissi a Moro non c’erano motivi per fidarsi di Bolsonaro perché non era credibile come uomo politico. Ero sicuro che non avrebbe mantenuto le promesse fatte in campagna elettorale ma Moro credeva il contrario”. Da quel momento, l’inchiesta subì una brusca frenata: il pacchetto anticorruzione proposto da Moro venne bloccato dal Congresso, la carica di Procuratore Generale della Repubblica venne affidata da Bolsonaro ad Augusto Aras, magistrato contrario ai metodi d’indagine del pool Lava Jato, e a maggio 2020 lo stesso Moro è stato costretto a dimettersi dal Ministero della giustizia. “Così com’è successo in Italia, vi è stata una forte reazione sia da parte dell’antibolsonarismo, che vedeva nella Lava Jato un golpe giudiziario, che da parte delle forze politiche di governo” - è convinto Lima. Così si è arrivati allo scioglimento del pool Lava Jato, deciso dallo stesso Aras a febbraio del 2021, ma ciò non ha coinciso con la fine della corruzione in Brasile. “Se spegni la luce non puoi dire che l’ambiente attorno a te è più pulito o più sporco. Ultimamente abbiamo assistito all’oscuramento delle indagini per via di discutibili decisioni della Corte Suprema e delle Procure”. A ciò si è sommata, come la definisce l’ex procuratore Lima, “una campagna di punizione nei confronti del pool” per presunte indennità di trasferta non giustificate. Ad uno di questi procedimenti è stato sottoposto anche l’ex magistrato Lima, nonostante abbia lasciato la Procura di Curitiba nel 2017 e sia andato in pensione due anni più tardi: “Il Tribunal das Contas (l’equivalente della nostra Corte dei conti, ndr) ha recentemente aperto un’inchiesta per accertare se avevo diritto oppure no al rimborso delle spese di viaggio quando lavoravo nel pool Lava Jato. All’epoca però ero procuratore anche a Sao Paulo e per legge avevo diritto a ricevere questa diaria. È una vicenda grottesca e credo che se Moro non avesse abbandonato la magistratura sarebbe stato anche lui sottoposto a questo trattamento”.
Oggi, Sergio Moro si è candidato alla Presidenza della Repubblica e ha inserito la lotta alla corruzione tra i punti principali del suo programma di governo. E ciò rappresenta, secondo Carlos dos Santos Lima, una sostanziale differenza rispetto i principali competitors dell’ex giudice di Curitiba, cioè Bolsonaro e Lula: “Danno un cattivo esempio per il Paese perché trasmettono il messaggio che se hai un po' di potere puoi scappare dalle inchieste”. Velato riferimento alla decisione della Corte Suprema di annullare per vizio di forma la condanna per corruzione emessa contro Lula. Destino uguale è toccato a molti altri imputati eccellenti dell’inchiesta, tanto che verrebbe da chiedersi cosa sia rimasto della più grande indagine contro la corruzione della storia del Brasile. Su questo punto l’ex magistrato Lima ha le idee chiare: “L’eredità di Lava Jato sono i fatti accertati nelle aule di giustizia”.
Cioè, le prove che l’elité politica brasiliana si finanziava attraverso la corruzione e che, forse, continua a farlo ancora oggi.

Foto: it.depositphotos.com

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