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Si è spenta ieri all’età di 78 anni a Roma dopo una breve malattia, Liliana Ferraro, magistrato che aveva lavorato al fianco di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia. Dal 2015 ricopriva il ruolo di Presidente dell’Organismo di Vigilanza della Società. Indubbio è stato il valore del suo lavoro: con il suo impegno era stata costituita in soli sei mesi l’aula bunker in cui era stato celebrato il maxiprocesso di Palermo, aveva collaborato con il giudice Giovanni Falcone all’Ufficio Affari Penali del Ministero della Giustizia per poi prenderne la dirigenza dopo la strage di Capaci.
Ma è proprio in quei 57 giorni che separano la morte di Falcone dalla strage di Via D’Amelio che accadono fatti destinati a rimanere nelle memorie della Ferraro per oltre vent’anni di distanza dalla morte di Paolo Borsellino. Liliana Ferraro davanti alla corte palermitana nell’ambito di una udienza del processo trattativa Stato Mafia datata giugno 2016 aveva raccontato tante piccole “gocce” di quella memoria mai rivelata su ciò che era accaduto tra il 1992 e il 1994: l’incontro con l’allora ufficiale dei Carabinieri Giuseppe De Donno, la nomina di Francesco Di Maggio alla dirigenza del Dap e le sue dichiarazioni al pm Gabriele Chelazzi.
Ma perché il silenzio? E cosa ha permesso a questi ricordi di emergere?
Riavvolgiamo il nastro.
Il 14 ottobre 2009 la Ferraro era entrata negli uffici della Dia di Roma per essere interrogata nell'ambito delle nuove indagini sulle stragi del '92 chiamata in causa dall’ex ministro della giustizia Claudio Martelli durante un'intervista ad Annozero sei giorni prima. Martelli in sostanza aveva riferito di un incontro avuto dalla Ferraro con l’allora ufficiale del Ros Giuseppe De Donno nella settimana del trigesimo della strage di Capaci. I particolari di quell’incontro erano poi stati riferiti in aula nel 2016 in risposta alla domanda del pm Roberto Tartaglia (presente in aula assieme a Francesco Del Bene e Nino Di Matteo): De Donno, aveva detto Ferraro, “mi venne a salutare poco tempo dopo la morte di Falcone. Era molto commosso. Mi disse, parlando al plurale, che avrebbero fatto di tutto per scoprire gli assassini di Falcone e che avevano intenzione o avevano preso contatto con Massimo Ciancimino per mettersi in contatto con il padre (l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino ndr) e vedere se voleva collaborare. Mi chiese di dirlo al ministro Martelli. Ciò avvenne nella settimana del trigesimo della morte di Falcone”. E poi ancora: “ricordo che loro volevano un sostegno politico...in quanto si trattava proprio di un personaggio come Ciancimino..Io risposi che l'avrei fatto, anche se non c'era questo bisogno, ed anzi che secondo me dovevano parlarne con Paolo Borsellino e che io stessa l'avrei avvisato. Lui mi rispose che anche loro avrebbero parlato con il magistrato”. La Ferraro aveva inoltre confermato di aver avvisato sia Martelli, a cui disse che quella iniziativa del Ros era volta a “fermare lo stragismo”, che Borsellino. L'incontro con quest'ultimo avvenne il 25 giugno, all'aeroporto di Fiumicino. “Adesso ci penso io” erano state le uniche parole del giudice che, secondo l'ex direttrice dell'ufficio Affari Penali, “non sembrava ancora informato sul punto”.
Rispondendo alle domande di Tartaglia, Ferraro aveva riferito che nel luglio del 1992 aveva partecipato ad una cena con Mori e De Donno, dopo la strage di via d'Amelio, e nell'ottobre dello stesso anno avevano avuto un incontro con Mori e De Donno “in cui mi chiesero della possibilità di dare un passaporto a Vito Ciancimino”. “Io - aveva detto - intesi che evidentemente con Ciancimino stessero perdendo tempo. Perché lo chiedevano al ministero della giustizia? Non lo so, c'erano quei contrasti con la Procura di Palermo. Io colsi l'anomalia ma non dissi nulla. In quell'occasione non parlammo dei fatti di giugno”. A quel punto Tartaglia aveva ribattuto: “Ma come è possibile tenuto conto che lei rispetto all'iniziativa di contatto con Vito Ciancimino aveva dato indicazioni precise di rivolgersi all'autorità giudiziaria e che dopo alcuni mesi di distanza tornarono a fare una richiesta simile? Come è possibile che non chiese anche solo per curiosità, visto che anche Borsellino era morto?”. La risposta è stata paradossale: “Considerai che stessero perdendo tempo.. avrò sbagliato ma questa fu la mia considerazione. E probabilmente avrò sbagliato nella valutazione”. “Ma almeno al momento della richiesta del passaporto le chiese se avvisarono Borsellino?” Aveva domandato nuovamente il pm. “Non ricordo, non credo, ma non mi ricordo..”. “Ma era morto!”. “Posso colpevolizzarmi, posso dire che ho sbagliato, posso dirle questo...” la risposta della donna.
Ed è stato sempre nell'ambito della questione “passaporto Ciancimino” che la Ferraro, per poco, aveva usato il termine trattativa. “Ricordo che mi parlarono di una possibilità di una richiesta di.. di cosa pensavo di una richiesta di passaporto per Vito Ciancimino. La mia valutazione fu che erano ancora in tratta...in contatto con Ciancimino e pensavo che non avevano concluso niente”.

I colloqui investigativi con Ciancimino
Le richieste del Ros però non si erano fermate lì. Poco dopo l'arresto di Riina (erano passati appena cinque giorni) la Ferraro aveva ricevuto nel suo ufficio una richiesta di colloqui investigativi con Ciancimino senior (in carcere) a firma del generale Subranni. La nota, era stata poi trasmessa al Ministero il 20 gennaio 1993 e parlava chiaramente di un'autorizzazione per “colloqui finalizzati ad acquisire notizie in merito attività operative in corso e da parte di questo raggruppamento operativo speciale”.
Rimasi molto stupita di quella richiesta” aveva risposto l'ex vicedirettore degli Affari Penali. Tuttavia, per autorizzare quei colloqui, non aveva ritenuto di interloquire sul punto né con Mori e De Donno, che in passato le parlarono proprio dell'iniziativa su Ciancimino, né con la Procura di Palermo. “Caselli si era già insediato, seppur da poco – si era giustificata la Ferraro – E sapevo che Mori e Caselli si conoscevano già dai tempi delle brigate rosse”.

La nomina di Di Maggio

Un altro tema emerso in dibattimento dalle memorie della Ferraro era stato quello della nomina di Francesco Di Maggio come vice capo del Dap. La Ferraro, oltre a chiarire il dato di aver aiutato a scrivere lei, assieme ai suoi collaboratori, la bozza per superare il problema dei mancati titoli (poiché Di Maggio non poteva essere nominato alla dirigenza del Dap per mancanza di questi ultimi) aveva ricordato anche di aver ricostruito questo passaggio, per lei all'epoca “banale e non rilevante”, soltanto dopo la lettura delle intercettazioni tra Nicola Mancino e Loris D'Ambrosio. E alla domanda del pm Nino Di Matteo sul perché non fosse andata davanti all'autorità giudiziaria ad integrare le sue dichiarazioni dato che le intercettazioni uscirono appena tre mesi dopo il suo interrogatorio di fronte ai pm risponde: “Qualcosa che ho detto oggi l'ho ricordata solo ora, come le parole di Di Maggio al 41 bis. Su questo avrò rielaborato dopo, può darsi che allora non avevo ancora rielaborato”.
E su quella nomina poi aggiunto: “Prima Di Maggio mi disse che aveva concordato di andare al Dap e che ne aveva parlato con Conso. Poi mi disse anche che il Quirinale era informato ma non so dire se era lo stesso incontro o meno”.

Le domande di Chelazzi
Ultimo punto toccato durante l'esame è stato il verbale di sommarie informazioni testimoniali con il pm Gabriele Chelazzi. Era emerso, infatti, su ricordo della teste, che di certi temi non aveva parlato soltanto a partire dal 2009 (quando Martelli le chiese informazioni prima del suo intervento alla trasmissione Annozero) ma anche durante quell'incontro con il magistrato fiorentino. “Agli inizi del 2000 (il 10 maggio 2002, ndr) mi chiama e mi fa una serie di domande sulle modalità di funzionamento del sistema carcerario ed io parlai delle competenze degli Affari penali e del diparitmento. Durante quelle risposte ad un certo punto si affacciò il Procuratore nazionale Vigna ricordando al dottor Chelazzi che avevano un impegno. Quel verbale si interruppe, si stava per stendere e ci fu anche un problema dei tecnici. Inizia così una seconda parte, informale, su una serie di vicende dove lui mi illustrò i suoi obiettivi di andare a vedere come e perché c'era stata la mancata strage dell'Olimpico e cose simili. Ed io lo informai dell'incontro con De Donno, così restammo che mi avrebbe riconvocata perché c'erano altre cose che doveva chiedermi”.
Tuttavia, sia Tartaglia che Di Matteo, recuperando gli audio originali avevano messo in evidenza un dato: né nel verbale riassuntivo, né nella trascrizione integrale delle registrazioni vocali di quell'interrogatorio vi era un riferimento a quegli argomenti, nonostante lo stesso Chelazzi avesse introdotto la tematica sia sulla mancata conferma dei 41 bis, che su eventuali frequentazioni ministeriali del generale Mori. Il pm Tartaglia aveva fatto pure notare la tempistica del colloquio. La fono registrazione si chiudeva alle 11,30 e l'inizio della trascrizione riassuntiva era segnato alle ore 11,35 e in questa non vi era traccia di quelle dichiarazioni. E sarebbe all'interno di quel "buco" di 5 minuti che la Ferraro aveva sostenuto di aver rilasciato le dichiarazioni a Chelazzi sulla visita del capitano del Ros. “Della questione Di Maggio all'epoca non mi sono ricordata. Per quanto riguarda gli incontri con De Donno si vede che mentre registravamo non mi era venuto in mente, mentre quando si spense il registratore lo dico”.
Purtroppo rileggendo queste dichiarazioni si ha la sensazione che i “non ricordo” abbiano di gran lunga superato i “ricordi” di quei terribili giorni su cui ancora, purtroppo a distanza di trent’anni, si sta cercando ancora di fare luce.

Foto © Imagoeconomica

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