L’emozione, la delusione e il coraggio nelle testimonianze dei familiari vittime di mafia, degli agenti sopravvissuti alle stragi e dei nuovi agenti di polizia
Una “casa”: così più volte è stata descritta la caserma Lungaro, sede del reparto scorte della Questura di Palermo, durante l’evento di ieri organizzato dal S.i.a.p. (Sindacato italiano appartenenti Polizia) al quale hanno partecipato familiari vittime di mafia, sopravvissuti alle stragi e molta società civile. Era presente anche il questore della città che ha definito la caserma come “la casa simbolica di tutti i poliziotti d’Italia, perché Palermo è la questura simbolo della Polizia di Stato, è la città dove la maggior parte dei poliziotti hanno lasciato la vita per combattere il fenomeno mafioso: noi contiamo più di 30 poliziotti, tra funzionari e agenti che hanno lasciato il sangue sulle strade di Palermo. La città di Palermo è bagnata del sangue dei poliziotti, oltre che del sangue di tanta altra gente onesta, funzionari dello Stato, giornalisti, magistrati prima di tutto”.
L'intervento di Luigi Lombardo
Un incontro intimo ed emozionante, dove sono state condivise esperienze, momenti e ricordi di vita, spezzati negli anni delle stragi e degli attentati. Eddie Walter Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro sono i nomi scritti nella lapide all’interno della caserma, davanti alla quale nel tempo si sono ispirati tanti giovani che oggi indossano il distintivo. Uomini e donne che spesso passano in secondo piano nelle commemorazioni e nelle parole di ricordo: servitori dello Stato che, dopo aver giurato fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione italiana, hanno svolto il loro servizio in silenzio accanto alla magistratura, con la quale avevano un legame indissolubile. “Il testimone oculare è scomodo”, ha affermato Antonio Vullo, unico agente di scorta sopravvissuto alla strage di Via D’Amelio, “e ne so qualcosa, perché ho avuto anche minacce e tante di quelle delusioni che mi porto dentro e di cui è difficile parlare. I ragazzi delle scorte si sono sempre messi in prima fila, hanno fatto da scudo, anche a quelle personalità istituzionali che poi invece abbiamo saputo essere dalla parte opposta dello Stato”.
Anche Vincenzo Agostino, padre del poliziotto Antonino Agostino, ucciso insieme alla moglie incinta Ida Castelluccio il 5 agosto 1989, come ogni anno e come in ogni evento, era presente e rivolgendosi anche al nuovo questore appena insediatosi si è augurato che oggi, rispetto a tanti anni fa “i tempi siano cambiati, diamo coraggio a questi ragazzi della scorta”, ed ha aggiunto, “non si possono chiamare uomini di scorta perché avevano un nome e un cognome”.
Il ricordo di Luciano Traina e Antonio Vullo insieme a Luigi Lombardo
Parole di grande emozione sono arrivate anche da Luciano Traina, fratello dell’agente Claudio e da Giuseppa Catalano, sorella di Agostino. Quest’ultima con le lacrime agli occhi ha detto: “Un pezzo del mio cuore è sotto quell’albero, per tanto tempo non sono andata perché avevo paura di dove mettevo i piedi, se c’era stato il sangue di mio fratello in quel punto”. Ancora, Graziella e Ninni Domino, genitori del piccolo Claudio Domino, ammazzato a 11 anni con un colpo di pistola alla testa il 7 ottobre del 1986, hanno condiviso, con tutta la loro forza e tenacia di sempre, la delusione che si prova dopo 35 anni di lotte, verità nascoste e quesiti rimasti totalmente aperti. Soprattutto quando, chi avrebbe il dovere di dare risposte, tace e si limita ad inutili “passerelle”. “Non è sufficiente avere la ‘lacrimuccia’ o la presenza istituzionale e dire ‘vi siamo vicini’”, ha affermato Ninni, “ma cosa significa? Sono 30 anni che vi sento dire, con il politico di turno, ‘noi vi siamo vicini’. Per essere vicini alle forze dell’ordine gli dovete dare mezzi tecnologici all’avanguardia, macchine di prima qualità, sistemi informativi che devono essere superiori a quelli delle mafie, così potete stare vicini a quegli uomini e non farli morire come delle bestie perché hanno solo il coraggio di sparargli alle spalle: alle spalle, agli uomini che li affrontano e in faccia ai bambini, perché sono vigliacchi, come è successo con mio figlio, a 11 anni. Ed è stato un poliziotto”.
Dopo tutti questi anni, ancora tanti sono i misteri su cui non è stata fatta piena luce e che riguardano il periodo delle stragi, come l’Agenda rossa di Paolo Borsellino “sottratta da pezzi deviati dello Stato, forse è stata data in pegno a quella controparte della trattativa che è costata la vita a mio fratello, per assicurare il mantenimento dei patti. Cambiali che ancora oggi si continuano a pagare: perché questo significa quello che si cerca di fare, l’abolizione di quel pacchetto di provvedimenti che fanno la legislazione italiana antimafia la migliore d’Europa e del mondo e che una corte europea, che di mafia non sa nulla, si vuole distruggere. E che dall’interno del parlamento italiano quegli stessi politici che si sono cosparsi il capo di cenere e si sono battuti il petto perché Brusca è stato messo in libertà e intanto pensano di abolire l’ergastolo ostativo e 41 bis. Significherà che questi criminali, Graviano e altri, li vedremo in giro senza che abbiano collaborato con la giustizia, ma soltanto dissociandosi dalla mafia, dissociazione che per il mafioso non vuol dire niente”.
Sono state le parole di riflessione e di denuncia di Salvatore Borsellino davanti al rischio di smantellamento di quella normativa italiana di contrasto ideata e voluta da Giovanni Falcone, prima della quale tanti servitori dello Stato sono stati uccisi. E quindi, di fronte a tutto questo, è necessario non solo fare una differenza, come ha chiarito Salvatore, tra ricordo e memoria, intendendo quest’ultima come “qualcosa per cui si lotta”, ma è indispensabile che tutta la società civile si assuma la responsabilità “nel chiedere e pretendere verità e giustizia e che chi ci rappresenti in questo momento non dimentichi i sacrifici che ci sono stati, il percorso che è stato fatto e l’importanza di determinate leggi e normative. Assumerci la responsabilità non solo nel ricordare chi non c’è più, ma nel prendere il testimone che ci hanno lasciato, perché il lavoro che facevano e che portavano avanti, era per noi, per l’insieme, non per l’io, non per sé stessi”, ha detto Aaron Pettinari, caporedattore di AntimafiaDuemila. Senza dimenticare che proprio oggi, alcuni magistrati, stanno subendo quegli stessi isolamenti, quelle stesse delegittimazioni, calunnie, minacce e sentenze di morte che Falcone e Borsellino erano costretti a subire mentre svolgevano il proprio lavoro di magistrati.
Così noi oggi siamo doppiamente responsabili, perché coscienti del passato e “testimoni oculari” del presente. Come ha affermato Jamil El Sadi, giovane attivista e membro del Movimento culturale internazionale Our Voice, “oggi grazie ai potenti mezzi di informazione e grazie alla possibilità di accedere a degli atti che un tempo non si avevano. Noi siamo testimoni oculari del sacrificio di Gratteri, di Scarpinato, di Nino Di Matteo, del sacrificio di uomini e donne delle istituzioni che fanno della lotta alla mafia la loro ragion di vita, la ragion di Stato”. Se manca la volontà politica, questa deve essere sostituita dalla pretesa di giustizia di tutta la società civile e dalla scelta consapevole dei propri rappresentanti politici. Un lavoro e un impegno che va condiviso e svolto “insieme”: chi lotta con tenacia e resistenza ormai da decenni insieme alle nuove forze giovani a cui verrà presto passato il testimone.
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