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Sono passati ormai 27 anni dall’omicidio della giornalista Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin avvenuto nella lontana capitale Somala. Lo scenario in cui si mossero Ilaria e Miran presenta tutte le caratteristiche di quelle di un film, uno di quelli dove magari finisce tutto bene e la giustizia trionfa. Ma “qui non è Hollywood”, volendo parafrasare la canzone del gruppo rock dei Negrita, ma Mogadiscio. E il finale di questa triste storia è tutt’altro che certo.
Sull’omicidio hanno indagato - direttamente o indirettamente - 8 Procure della Repubblica e 4 Commissioni di Inchiesta parlamentare, ma per la giustizia italiana, ad oggi, non ci sono colpevoli, non ci sono moventi, non ci sono mandanti. Solo una certezza: l'esistenza di un depistaggio scellerato che ha portato alla prigionia di un innocente.
Questa eredità giudiziaria è passata ora nelle mani dell’ex magistrato Carlo Palermo, ora legale della famiglia Alpi. Si riuscirà a distanza di 27 anni ad avere un barlume di verità?
Ma ricominciamo dal principio.

C’è del marcio in Somalia
Ilaria Alpi, giornalista e inviata della Rai, arrivò a Mogadiscio assieme ad Alberto Calvi (il suo operatore di fiducia) per la prima volta il 19 dicembre 1992, con lo scopo di raccontare l’inizio dell’operazione internazionale “Restore Hope” con cui l’ONU, intendeva riappacificare la situazione nel Paese. Infatti in Somalia in quegli anni vi fu una terribile guerra civile (tutt’ora in corso) che scaturì dalla caduta del dittatore Mohammed Siad Barre, la cui uscita di scena determinò la nascita di fazioni distinte comandate da due signori della guerra, Ali Mahdi e Aidi, i quali si divisero il controllo della città di Mogadiscio - zona nord per Ali Mahdi e zona sud per Aidi) - in due macroaree separate da una immaginaria “linea verde”.
Ilaria a differenza degli altri reporter non adottò il classico modello della “fredda cronaca” ma cercò sempre di dare voce prima di tutto alla popolazione comune, vittima senza voce di conflitto mai voluto. Ma Ilaria molto presto ebbe modo di scoprire che dietro la cortina della guerra si celavano oscuri traffici legati a lucrosi interessi.
Infatti Franco Liva, un ex funzionario del ministero degli esteri Italiano, quando venne intervistato durante una trasmissione in onda su Rai 3, dichiarò che la Somalia “agli inizi degli anni Novanta era un Paese in bancarotta, quindi nessun fornitore era disposto a vendergli armi. Quindi non poteva che concedere qualcos’altro. Diciamo di poter scaricare in territorio Somalo, in alcune aree, rifiuti radioattivi, tossico nocivi a costi molto bassi rispetto quanto potrebbe costare al nostro sistema paese”.
Territorio da usare per lo smaltimento di rifiuti tossici e radio - attivi in cambio di armi. Ilaria cercò le prove di questo traffico? E’ per questo che venne uccisa?

Il sultanato delle armi di Bosaso
Alla fine del 1993 le Nazioni Unite presero la decisione di ritirare le truppe dal territorio Somalo poiché la missione “Restore Hope” si arenò inesorabilmente e il suo fallimento fu sotto gli occhi di tutti. Ilaria Alpi il 12 Marzo 1994 tornò per l’ultima volta in Somalia e ad accompagnarla quella volta non ci fu Alberto Calvi, ma Miran Hrovatin. Mentre le ultime truppe si preparavano a lasciare il Paese, Ilaria e Miram partirono misteriosamente per Bosaso, una città estremamente pericolosa a nord della Somalia. Secondo la testimonianza di un ex agente appartenente all’organizzazione segreta Gladio, il porto della suddetta città fu uno snodo cruciale per il traffico internazionale di armi, le quali venivano portate nel paese per mezzo di una flotta di navi di proprietà di una società Italiana, la Shifco, gestita dall’imprenditore italo-somalo Omar Mugne.
A sostegno di queste dichiarazioni venne redatto anche un rapporto dalle Nazioni Unite che descrisse dettagliatamente come fosse arrivato in Somalia - sempre tramite la Shifco - un grosso carico di armi, molte delle quali provenienti dalla Lettonia.
Nei primi mesi del 1994 una nave della compagnia della Shifco - la Faarax Omar - venne posta sotto sequestro dalle milizie di Bosaso perché ufficialmente non rispettava le normative sulla pesca. Ilaria e Miran la mattina del 15 marzo del 1994 intervistarono Abdullahi Mussa Bogor (fratello del Sultano di Bosaso). Ilaria gli fece delle domande riguardo alla Faarax Omar ma il “governatore” si guardò bene nel rivelare qualsiasi dettaglio sulla nave e sulle operazioni di sequestro. Perché tanta discrezione se la nave trasportava del semplice pesce?
Il giornalista Torrealta dichiarò durante la trasmissione a “Chi l’ha visto?” che “se si vuole trovare una motivazione per commettere questo delitto è proprio quella del sequestro di questa imbarcazione e di quello che poteva contenere”. Di fatti “se fosse venuta fuori la notizia della presenza di una nave italiana piena di armi o piena di rifiuti radioattivi - ha continuato Torrealta - sarebbe stato imbarazzante, inaccettabile”. Soprattutto perché l’Italia in Somalia era in missione di pace.

Gli ultimi istanti
La mattina del 20 marzo 1994 Ilaria e Miran si recarono all’hotel Amana (nella zona controllata da Ali Mahdi) accompagnati solo da una guardia del corpo e dal loro autista. Dopo essere usciti dall’hotel (ad oggi non sappiamo ancora con chi abbiano parlato e perché) Ilaria e Miran tornarono in macchina, fecero qualche metro finché l’auto del commando omicida gli tagliò la strada, la macchina di Ilaria fece retro marcia fino incastrarsi contro un muro, a quel punto due somali escono dalla macchia e il viaggio di Ilaria e Miran terminò in quel momento. Entrambi vennero uccisi con un colpo di pistola alla testa, come un’esecuzione.
Sul posto non accorsero i nostri militari, non accorse la polizia Somala, non arrivò nessun soccorso.
Il presidente Somalo Ali Mahdi disse di non sapere nulla.
Il Capo della Polizia Somala Osman Omar Weile idem.
Anche i nostri servizi segreti non diedero, di fatto, alcun contributo.
Niente. Ilaria e Miran morirono e basta.
Nel frattempo, mentre i corpi erano ancora caldi, ebbero luogo i primi passi del depistaggio che portò alla sparizione di molti documenti e videocassette di Ilaria, alla scomparsa dei veri responsabili fino a giungere alla condanna di un innocente: Hashi Omar Hassan.
Questi fu scagionato e rimesso in libertà dalla Corte d'Appello di Perugia dopo 26 anni di carcere.
La sua reclusione fu un segno che chi voleva morta Ilaria e Miran voleva anche a tutti i costi bloccare il cammino investigativo e seppellire per sempre la verità.
Ma la storia di Ilaria e di Miran non deve essere dimenticata e il caso non dovrà mai essere archiviato fino a che non si avranno i nomi dei responsabili.

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