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La dissociazione pedina fondamentale con cui giocano tuttora i vertici di Cosa nostra

La notizia della richiesta di un permesso premio per lasciare il carcere avanzata dal boss Filippo Graviano - condannato all'ergastolo per l'omicidio del beato Pino Puglisi e per le stragi del 1992 e del 1993 - ha messo sull’attenti tutto il mondo dell’antimafia. Soprattutto per le motivazioni con le quali il capo mafia ha fondato la sua istanza: la dissociazione da Cosa nostra. Sul punto sono già intervenuti in maniera chiara ed inequivocabile illustri personalità antimafia, su tutti il pm Nino Di Matteo, e oggi anche l’ex magistrato Gian Carlo Caselli ha espresso le sue preoccupazioni sottolineando anzitutto come la dissociazione rappresenti uno dei pallini “ancestrali” di Cosa nostra. “Mentre il 'pentimento' comporta la collaborazione con lo Stato, dichiarando quanto si conosce di utile per le indagini (così riparando almeno in parte i danni causati)”, osserva Caselli in un articolo a sua firma su Il Fatto Quotidiano - “Nulla di tutto questo nella dissociazione, che si realizza senza parlare di niente e di nessuno, si tratti di mafiosi o di complici. Un semplice proclama, senza segni esteriori di apprezzabile concretezza per poter valutare che non sia un bluff o un escamotage per uscire da una situazione difficile”. “Da sempre Cosa nostra è alle prese con il complesso problema dei rapporti fra i mafiosi ancora in libertà e quelli detenuti”, ha continuato Caselli. “L’offensiva dello Stato dopo le stragi ha riempito le carceri, e il problema per i mafiosi è diventato una profonda ferita aperta che occorre sanare. Di qui il periodico riemergere di iniziative favorevoli alla “dissociazione”: una pedina fondamentale della scacchiera su cui ancora oggi gioca il gruppo dirigente dell’organizzazione. Il riconoscimento legale della “dissociazione” offre infatti varie prospettive: uscire dal 41 bis, qualche ergastolo in meno, qualche permesso in più e soprattutto salvare i propri beni dalla confisca. In sostanza, un progetto funzionale al riconsolidamento di Cosa nostra”. In questo senso l’ex procuratore di Palermo ha riportato una vicenda raccontata dal magistrato Alfonso Sabella nel libro Cacciatore di mafiosi (Mondadori, 2008). “Nel maggio 2000, la Dna sottopone al ministro della Giustizia (all’epoca Piero Fassino), all’esito di alcuni colloqui investigativi con cinque capi-mandamento detenuti, la possibilità di farli incontrare in carcere con altri quattro boss per concordare una pubblica dissociazione da Cosa nostra. Nel contempo si chiede di valutare - in sede politica - la possibilità di riconoscere dei benefici ai dissociati. Fassino investe della questione il Dap che allora io dirigevo. A mia volta interesso Sabella, capo dell’ispettorato, e l’iniziativa viene bloccata. Qualche tempo dopo (a capo del Dap era stato nominato Giovanni Tinebra) Sabella, ancora direttore dell’ispettorato, scopre che Salvatore Biondino (fedelissimo di Riina) aveva avuto l’incarico di trattare nuovamente la dissociazione con lo Stato, ma stavolta per conto di tutte le organizzazioni mafiose italiane. Sabella lo segnala per iscritto a Tinebra (che il giorno dopo sopprime l’ispettorato) e comunica ogni cosa al nuovo Guardasigilli Castelli, che per tutta risposta lo 'licenzia' dal Dap”.
Sia come sia - ha concluso il suo articolo Caselli - è comunque dimostrato il forte interesse delle mafie a ottenere benefici in cambio di una presa di distanza dall’organizzazione escludendo però ogni forma di collaborazione processuale. Vero è che nel 1987 una normativa siffatta è stata varata per i terroristi, ma ciò è avvenuto quando il pericolo del terrorismo era ormai irreversibilmente esaurito. Mentre la mafia, purtroppo, è tuttora un fenomeno criminale in gran 'forma'. Sicché eventuali 'riconoscimenti' sarebbero - a dire davvero poco - del tutto fuori luogo in quanto controproducenti”.

Foto © Imagoeconomica

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