di AMDuemila
Era il 20 marzo 1979 quando il giornalista Mino Pecorelli fu assassinato. Il giornalista era appena uscito dalla sede del giornale in cui lavorava, in via Tacito 50, e stava andando in via Orazio, dove aveva posteggiato l’auto. Dopo essere entrato nell’autovettura e aver fatto manovra, fu colpito da quattro colpi calibro 7,65 della marca Gevelot. Secondo quanto fu accertato dalle indagini, i proiettili che uccisero Pecorelli erano molto costosi e introvabili addirittura al mercato nero, e gli unici ad esserne in possesso erano i componenti della banda della Magliana.
Ma perché fu ucciso?
A lungo la figura di Pecorelli è stata definita come controversa. Era una delle penne del giornalismo più temute in quanto nel suo periodico, “Osservatore Politico”, parlava e rivelava vicende scabrose. E prima di morire aveva raccontato anche alcuni retroscena che si nascondevano dietro il delitto di Aldo Moro.
Come riportato nella Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2 nel 1987 (a cui Pecorelli risultava iscritto), il giornalista aveva fonti da ambienti dei servizi segreti a quelli dell’Arma dei Carabinieri. Pecorelli era a conoscenza di contenuti compromettenti e non se li teneva per sé, ma scriveva contro ogni schieramento politico e anche sul Vaticano (celebre la copertina dell’Op “La grande loggia Vaticana”).
Le rivelazioni del collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, nel 1993, portarono a identificare come mandante dell’omicidio del giornalista l’ex sette volte presidente del Consiglio, Giulio Andreotti. E come esecutore il capomafia di Cosa nostra Gaetano Badalamenti.
Inizialmente nel settembre 1999 ci fu un’assoluzione mentre nel 2002 la Corte d’Assise d’Appello di Perugia condannò sia Andreotti che Badalamenti a 24 anni di reclusione. Però, in Cassazione la sentenza fu ribaltata nel ottobre 2003, annullando la condanna senza rinvio. Ed è così che sull’assassino del giornalista Mino Pecorelli i misteri rimasero irrisolti e sulla verità fu costruito un muro.
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