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di Davide de Bari
“Non c’è bisogno di essere eroi, basterebbe ritrovare il coraggio di avere paura, il coraggio di fare delle scelte, di denunciare”. In queste parole è racchiusa l’essenza pastorale del prete anticamorra, don Peppe Diana, che fu assassinato la mattina del 19 marzo 1994 prima che iniziasse a celebrare la santa messa. Un uomo entrò nella Chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe e chiese del parroco. “Chi è don Peppino?” chiese. “Sono io”, rispose don Diana. Poco dopo fu raggiunto da cinque colpi di pistola: due alla testa, uno al volto, uno alla mano e uno al collo. In quegli anni, don Peppe era stato uno dei primi sacerdoti ad opporsi all’oppressione mafiosa. Con il suo agire rappresentò un punto di cambiamento per la Chiesa Cattolica, come anche erano state rivoluzionarie le parole di Papa Wojtyla, quando, appena un anno prima, osò sfidare i mafiosi gridando ad Agrigento: “Convertitevi, un giorno verrà il giudizio di Dio”.
Don Peppe era un testimone d’amore in una terra dove la Camorra aveva la meglio ma, nonostante ciò, credeva nei giovani. Si diceva convinto che loro, un giorno, sarebbero stati capaci di ripudiarla, se avessero coltivato dentro se stessi il fondamentale valore della vita: l’amore.
Don Diana era convinto che con una diversa cultura e un’educazione basata sulla non violenza, si potesse liberare la sua terra dal cancro mafioso. Per renderlo possibile don Peppe si diede tanto da fare nella sua città, come parroco della parrocchia di San Nicola di Bari. Iniziò subito a lavorare, realizzando un centro di accoglienza per i primi immigrati africani. Nel dicembre 1991 scrisse un documento, firmato insieme a tutti i parroci delle parrocchie di Casal di Principe, in cui era racchiuso il suo fondamento pastorale. Un testo che esprimeva l’essenza di un vero e proprio "testamento spirituale” in cui erano presenti parole di estrema integrità morale e valori universali. Il suo titolo? “Per amore del mio popolo non tacerò”. “Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno - scriveva don Diana - Dio ci chiama ad essere profeti. Il Profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio (Ezechiele 3,16-18); Il Profeta ricorda il passato e se ne serve per cogliere nel presente il nuovo (Isaia 43); Il Profeta invita a vivere e lui stesso vive la Solidarietà nella sofferenza (Genesi 8,18-23); Il Profeta indica come prioritaria la via della giustizia (Geremia 22,3 -Isaia 5). Coscienti che “il nostro aiuto è nel nome del Signore” come credenti in Gesù Cristo il quale “al finir della notte si ritirava sul monte a pregare” riaffermiamo il valore anticipatorio della preghiera che è la fonte della nostra Speranza”.
Questa diversa cultura che il parroco voleva seminare nel popolo di Casal di Principe fu il motivo per cui il clan dei Casalesi decise di assassinarlo.
La morte del sacerdote fece tanto clamore come quella di don Pino Puglisi l’anno precedente. Si mobilitarono migliaia di persone in un corteo che percorreva le strade della città, mentre dai balconi pendevano lenzuola bianche in segno di lutto e di protesta.
Anche in questo omicidio non mancarono i soliti mascheramenti. Nei giorni immediatamente successivi all’assassino c’era chi ventilava la voce che il delitto fosse avvenuto per una "questione di donne". Un’ipotesi fortunatamente subito scartata dagli inquirenti.
Per arrivare alla verità sulla morte di don Peppe si è dovuto aspettare tanti anni.
Il 30 gennaio 2003 venne riconosciuto il mandante dell'omicidio del parroco nella figura del boss Nunzio De Falco, detto “o lupo”, condannato in primo grado all'ergastolo. De Falco provò a incastrare il rivale Schiavone, ma l'autore materiale dell'omicidio, Giuseppe Quadrano, collaborò con la giustizia, rivelando la verità. Il 4 marzo 2004 la Corte di Cassazione condannò all'ergastolo Mario Santoro e Francesco Piacenti come coautori dell'omicidio di don Peppe Diana. Dalla sentenza emerse inequivocabilmente che don Peppe fu ucciso per il suo coraggioso impegno di contrasto alla Camorra.

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