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di Aaron Pettinari
Per il Gip Guarnotta "impossibile accertare se quanto dichiarato sia falso"

Lo scorso 11 novembre il Gip di Palermo Michele Guarnotta, accogliendo la richiesta della Procura, ha disposto l'archiviazione per "infondatezza della notizia di reato" nei confronti dell'accusa di calunnia che era stata presentata dall'ex ministro della Giustizia Claudio Martelli nei confronti del collaboratore di giustizia Carmelo D'Amico, ex killer della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), a seguito di alcune dichiarazioni rilasciate durante il processo trattativa Stato-mafia.
Dopo l'espletamento di una serie di accertamenti, tra cui anche l'aver ascoltato il boss Nino Rotolo, ovvero la "fonte" delle informazioni riferite dallo stesso D'Amico, il pm Claudia Bevilacqua, pur ritenendo le dichiarazioni "in astratto idonee a configurare i reati 368 c.p. e 595 c.p. (calunnia e diffamazione)", aveva chiesto l'archiviazione nei confronti di D'Amico tenendo conto di una serie di elementi. Il pm aveva infatti ravvisato il “difetto in capo allo stesso D’Amico di una cosciente e consapevole volontà di un’accusa mendace”, e ciò perché “l’indagato aveva proceduto alla falsa incolpazione della persona offesa esclusivamente sulla base dei fatti e circostanze allo stesso riferite dal Rotolo e all’esito di una personale valutazione circa la veridicità di quanto riportato dal Rotolo”, anche tenendo conto che lo stesso boss di Pagliarelli è una persona di "rilevante spessore criminale”. A questi si aggiungeva, secondo gli stessi giudici del processo trattativa, il superamento del "vaglio preliminare di credibilità necessario per affrontare il merito delle sue dichiarazioni" pur restando alcune criticità.
Il legale di Martelli, da parte sua, opponendosi all'archiviazione aveva chiesto un confronto tra D'Amico e Rotolo, addirittura sostenendo la "buona fede" delle dichiarazioni rese da quest'ultimo. Un piccolo assurdo se si considera che Rotolo non è un collaboratore di giustizia.
A dirimere la questione ci ha pensato il Gip nel provvedimento di archiviazione.
"Alla luce del materiale probatorio acquisito è impossibile accertare se quanto dichiarato dall'indagato sia falso - scrive il giudice - poiché la smentita da parte di Antonino Rotolo non costituisce prova della falsità, dato che non si ha certezza se quanto dichiarato da quest'ultimo sia a sua volta vero o falso". In particolare il Gip evidenzia come "le dichiarazioni rese da D'Amico circa le modalità di apprendimento delle informazioni assertivamente ricevute da parte di Rotolo sono state confermate dalla nota della Direzione della Casa di Reclusione di Milano Opera" che ha dato atto della contemporanea detenzione dei due soggetti, "in celle situate l'una di fronte l'altra, separate da un corridoio" e che "entrambi erano inseriti nello stesso 'gruppo di socialità'". Inoltre il giudice Guarnotta osserva che "anche Rotolo, pur negando di aver mai riferito al D'Amico quanto da questi poi dichiarato circa le asserite condotte poste dalla persona offesa (Claudio Martelli, ndr), ha comunque confermato che tra i due c'è stato modo di colloquiare seppure a suo dire soltanto 'per scambiarsi frasi banali'". Secondo il giudice il contrasto tra le due dichiarazioni, che vedono da una parte un collaboratore di giustizia e dall'altra un soggetto condannato per associazione mafiosa e mai disposto a collaborare, è "radicale ed insanabile" tanto da non poter essere risolto neanche mediante un confronto.
Nei giorni scorsi, in un articolo pubblicato su "Il Dubbio", l’avvocato Stefano Giordano, legale dell’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, aveva apertamente criticato la decisione del giudice. Nell'articolo veniva rappresentato come D’Amico avesse accusato Martelli non solo di avere avallato e promosso il patto con i boss, ma di essere stato addirittura il mandante della strage di Capaci nel quale perse la vita Giovanni Falcone, la moglie e la scorta.

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Nicola Mancino e Claudio Martelli, sullo sfondo © Imagoeconomica


Eppure, rileggendo i verbali di trascrizione di udienza del 17 aprile 2015 e del 15 maggio 2015, progressivamente, è chiaro il contenuto delle dichiarazioni dell'ex boss barcellonese e in alcun modo si fa direttamente riferimento a Martelli come mandante delle stragi. "Il ministro Martelli e il ministro Mancino dovevano mettersi in contatto con Vito Ciancimino, contattare cosa Nostra. Questa è la trattativa - aveva dichiarato - I servizi segreti hanno portato questi politici a fare questa trattativa e hanno indirizzato il senatore Dell’Utri che ha fatto il doppio gioco. Con altri politici si sono rivolti a Ciancimino per sistemare per non fare più queste stragi e arrivare a un compromesso”. E poi ancora: "Ora io i nomi di questi Ministri mandanti delle stragi io non li so, i nomi praticamente dei politici che mi ha detto, praticamente Mancino e il Ministro di Grazia e Giustizia Martelli per quanto riguarda la trattativa, ma i nomi riguardanti i mandanti praticamente delle stragi io non li so". Ed in effetti nemmeno l'avviso di conclusione delle indagini riporta quelle frasi.
Certo è che quelle udienze del processo non furono semplici. Il collaboratore di giustizia ancor prima dell'inizio dell'udienza aveva fatto sapere che avrebbe fatto dichiarazioni ulteriori rispetto a quanto era avvenuto in precedenza.
Lo stesso D'Amico ha spiegato nella prima udienza di escussione al processo Trattativa, il 17.04.2015, che quando era detenuto a Bicocca "... uscivano articoli sui giornali (...) la mia famiglia era a Barcellona (...) sono successe tante cose stranissime, appuntati che mi dicevano che dall'altra parte sapevano tutto di me, che ero di là a Bicocca e che ero in pericolo di vita, e poi il fatto praticamente che la mia famiglia ... non è stata trasferita tutt'ora..."
Nelle memorie presentate dall'avvocato Pugliese si fa riferimento ad altre dichiarazioni rese dal collaboratore nel corso di alcuni interrogatori in cui raccontava "che il Rotolo gli avesse indicato persino colui che sarebbe stato il Capo di Cosa Nostra, in un soggetto in stato di libertà nel territorio di Palermo, un uomo a lui legato, al quale avrebbe dovuto rivolgersi per qualunque eventualità o necessità, qualora lo stesso D’Amico fosse uscito dal carcere, contattandolo per il tramite di una gioielleria di Palermo". "Il D’Amico - proseguiva il legale - in quella sede aggiungeva che il Capo di Cosa Nostra non poteva essere un sia pur autorevole esponente dell’organizzazione operante nel territorio di Trapani, quale Matteo Messina Denaro, ma doveva essere un palermitano. D’Amico non ricordava il nome dell’uomo indicatogli da Rotolo, nel corso degli interrogatori spiega ripetutamente che aveva un nome non comune che non riusciva a ricordare, ma, a conferma della genuinità delle sue dichiarazioni, cercò di indicare ogni dettaglio di quelli che ricordava". A distanza di qualche anno, nell'operazione Cupola 2.0 che lo scorso anno ha svelato il tentativo di ricostruzione della Commissione da parte di Cosa nostra, era emerso il ruolo di vertice di Settimo Mineo. Evidenzia il legale nella memoria come "emerge dal provvedimento in oggetto che ci sia questa gioielleria, sita in Corso Tukory a Palermo, gestita da un nipote di Settimo Mineo, tale Mineo Giuseppe, che sembra sia “utilizzata” come luogo di incontri, contatti ed appuntamenti. Questa operazione, Cupola 2.0, e quanto emerge dalle numerose attività di indagine di questa stessa Procura, alla sez. DDA, smentisce definitivamente ogni ingiusta ed assurda accusa, mossa al D’Amico, di aver 'inventato' il de relato di Rotolo, che invece oggi è riscontrato in tutti gli elementi già indicati dal D’Amico e che si rinvengono nell'indicato provvedimento relativo all'operazione Cupola 2.0. Alla luce dei fatti, il riscontro di questa 'storia postuma', che conferma ogni dettaglio già riferito dal D’Amico, è piena prova di quanto già esposto da questa difesa, circa la autenticità, genuinità e sincerità del collaboratore di giustizia, su quanto appreso dal Rotolo". Persino i periodi di detenzione e di scarcerazione riferiti al D'Amico da Rotolo coincidevano.
Ma vi sono anche altri aspetti che, secondo l'avvocato di D'Amico, andrebbero considerati: "Fermo restando che nessuno ha sostenuto che il contenuto del narrato di Rotolo fosse vero o falso, anche altri collaboratori di giustizia (da Siino a Brusca, passando per Onorato, Avola, Giuffrè e Galatolo) hanno parlato di fatti sostanzialmente sovrapponibili, senza essere per questo denunciati". Aggiungendo che bisognerebbe chiedere al Rotolo le motivazioni del mendacio.
Inoltre, tornando sulle parole dell'ex killer barcellonese, va tenuto conto che la prima regola che viene data ad un collaboratore di giustizia è quella di raccontare tutto quello che sa, direttamente o indirettamente. Sarà poi compito dell'autorità giudiziaria svolgere gli accertamenti e le valutazioni sulle dichiarazioni. Eppure l'avvocato di Martelli insiste e sempre su Il Dubbio ha annunciato di voler valutare con il suo assistito "eventuali iniziative, di qualsiasi tipo, da assumere". Parole che si commentano da sole.

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