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di AMDuemila
Sono uscite le motivazioni della sentenza della Cassazione pronunciatasi lo scorso 11 settembre che ha annullato senza rinvio la sentenza di Appello che aveva dichiarato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione nel processo che vedeva imputati, tra gli altri, l'ex procuratore aggiunto di Catanzaro Salvatore Murone e l'avvocato generale Dolcino Favi finiti a processo per aver adottato provvedimenti atti a sollevare dalle indagini 'Why Not' e 'Poseidone' l'ex pm Luigi de Magistris, oggi sindaco di Napoli. "Le statuizioni 'sostanzialmente' penali - si legge - contenute nel dispositivo della sentenza impugnata vanno, dunque, cassate: decisione, questa, coerente con il più radicale annullamento senza rinvio dell'intera pronuncia gravata". La sentenza ha posto fine a undici anni di scontro tra procure (Salerno e Catanzaro), ripristinando la sentenza di primo grado che aveva assolto Murone e Favi dalla corruzione per non aver ricevuto alcuna utilità dall'aver tolto le inchieste all'allora pm di Catanzaro. La sentenza della Cassazione è giunta a seguito della derubricazione dell'originaria contestazione di corruzione in atti giudiziari nel reato di abuso di ufficio, accogliendo il ricorso (a fini civilistici) della parte civile de Magistris, rimuovendo dunque l'effetto assolutorio della sentenza di I grado emessa dal Tribunale di Salerno "perché il fatto non sussiste" e riconoscendo invece l'abuso d'ufficio, che però nel frattempo era ormai prescritto. Una decisione alla quale ha fatto seguito il ricorso delle difese alla Suprema Corte tra l'altro, per violazione di legge e vizio di motivazione "per avere la Corte salernitana erroneamente ritenuto di poter applicare la regola di giudizio prevista dall'art. 129, comma 2, del codice di rito, anziché effettuare un accertamento pieno del merito, come sarebbe stato necessario, anche per tutelare il diritto di difesa dell'imputato" e ancora "per avere la Corte campana erroneamente ritenuto di poter dichiarare la intervenuta estinzione del reato di abuso di ufficio, benché la sentenza assolutoria di primo grado avesse ampiamente motivato in ordine alla mancanza degli elementi costitutivi dell'illecito", giungendo a riformare tale pronuncia "senza offrire una penetrante analisi critica del relativo apparato motivazionale (come avrebbe imposto il canone dell'"oltre ogni ragionevole dubbio"), e senza neppure procedere alla rinnovazione dell'Istruttoria dibattimentale, che sarebbe stata necessaria per la riassunzione in secondo grado delle prove dichiarative acquisite nel primo giudizio". "L'accertamento sulla responsabilità penale - ha sottolineato la Cassazione dando ragione ai ricorrenti - viene compiuto dal giudice dell'impugnazione solo in motivazione e in maniera funzionale all'adozione dell'unica decisione finale consentitagli, da esplicitare nel dispositivo, cioè quella sulla fondatezza o meno della richiesta della parte impugnante alla restituzione o al risarcimento del danno". Invece la Corte di appello di Salerno, sottolinea la Suprema Corte, "ha ritenuto di poter decidere sui motivi dell'appello della parte civile sulla base della 'regola di giudizio' fissata dall'art. 129, comma 2, cod. proc. pen., regola per cui, come noto, in presenza di una causa di estinzione immediatamente dichiarabile, il giudice può pronunciare una sentenza di assoluzione dell'imputato nel merito solamente quando risulti evidente una delle cause liberatorie ivi elencate". Tuttavia secondo la Cassazione "tale soluzione interpretativa è errata" poiché "tale canone di giudizio, ispirato a ragioni di economia processuale, è compatibile con le garanzie difensive solamente laddove il giudice penale sia chiamato a pronunciarsi sulla regiudicanda penale, atteso che l'operatività di quel criterio di prevalenza di formule è 'equilibrato' dalla possibilità per l'imputato, propria del solo giudizio penale, di rinunciare alla causa di estinzione del reato". Dunque, "laddove l'imputato abbia beneficiato in primo grado di una pronuncia penale di assoluzione piena nel merito, è dovuto da parte del giudice del secondo grado un uguale impegno nell'esercizio dei poteri di accertamento dei fatti, dunque l'adempimento di un onere di motivazione piena nel merito, capace di essere posto a fondamento di una decisione di accoglimento della domanda avanzata dalla parte civile appellante. Ragionare in termini diversi, significherebbe precludere all'imputato - che, assolto nel primo giudizio, non ha presentato impugnazione - di esercitare a pieno i propri diritti di difesa, confutando adeguatamente il nuovo apprezzamento dei fatti operato dal giudice di secondo grado".
Quindi, in conclusione, la Cassazione ha rintracciato nella sentenza emessa dalla Corte di appello di Salerno "una grave violazione del principio di correlazione" tra contestazione e sentenza (il capo d'imputazione non contiene l'indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, né consente di ricavarli in via induttiva). E ciò perché, ha spiegato, "pur dovendo decidere solo in via incidentale sulla responsabilità penale in ragione delle doglianze formulate con la sola impugnazione dalla parte civile, la Corte di merito ha ritenuto di qualificare in termini di abuso di ufficio i fatti originariamente ascritti agli imputati in termini di corruzione in atti giudiziari: così disattendendo l'indicato principio, posto che, pur in presenza della contestata adozione di provvedimenti giudiziari indicati nell'imputazione come 'contrari ai doveri di ufficio', dunque implicitamente illegittimi per violazione di norme di legge o per mancata osservanza dell'obbligo di astensione, ai magistrati imputati era stato formalmente addebitato di aver voluto con quei provvedimenti favorire alcuni specifici indagati nell'ambito di un 'contesto corruttivo' che li aveva visti beneficiari di 'denaro e altre utilità'; mentre in sentenza gli stessi sono stati riconosciuti autori di atti abusivi intenzionalmente compiuti per procurare a quegli indagati 'un ingiusto vantaggio patrimoniale' ed 'a cagionare al pm de Magistris un danno ingiusto' consistente nella 'lesione della reputazione' di quel magistrato requirente, elementi oggettivi e soggettivi di cui non vi è assolutamente traccia descrittiva nei capi di imputazione per i quali era stata esercitata l'azione penale".

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