Sul canale Byoblu l'intervista al fratello del giudice
di Marta Capaccioni - Video
“Lo vedevo nei suoi occhi, dopo l’assassinio di Falcone era cambiato. Per una persona con un senso così alto dello Stato, rendersi conto che sarebbe stato ucciso da pezzi deviati di quello stesso Stato dev’essere stato terribile”, racconta Salvatore del fratello Paolo Borsellino, procuratore aggiunto di Palermo, durante l’intervista al canale Byoblu lo scorso 30 ottobre.
Il 19 luglio 1992, esattamente 57 giorni dopo la strage di Capaci, Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta vennero uccisi nell’attentato di Via D’Amelio. E non fu solo mafia. “Era un soldato che era andato a combattere il nemico, la mafia, ma non fu la mafia ad ucciderlo, ma un fuoco che gli proveniva dalle spalle, che doveva essergli amico e che avrebbe dovuto combattere insieme a lui”, afferma Salvatore. Un fuoco che avrebbe dovuto prima di ogni cosa difenderlo.
Oggi sicuramente abbiamo delle certezze.
La trattativa Stato-mafia ci fu, e fu la causa della morte del magistrato Borsellino: non sono più supposizioni, teorie o ipotesi, ma sentenza sottoscritta dalla magistratura il 20 aprile 2018 nel processo svoltosi a Palermo. Il depistaggio di Stato è realtà. Sono stati necessari ventisette lunghissimi anni perché si attestasse con la sentenza Borsellino quater (Procura di Caltanissetta) che uno dei tasselli del depistaggio fu l’indottrinamento del “picciotto della Guadagna” Vincenzo Scarantino, le cui dichiarazioni, contenenti sia elementi di falsità sia elementi di verità, furono intenzionalmente direzionate da una catena di comando esterna a Cosa Nostra.
Un depistaggio che avvenne sotto gli occhi degli organi inquirenti del tempo che, come afferma anche lo stesso Salvatore, “inverosimilmente avrebbero potuto non rendersi conto che Scarantino era un pazzo”.
Oggi, con l'accusa di concorso in calunnia aggravata dall'aver favorito Cosa nostra sono sotto processo a Caltanissetta il funzionario di polizia Mario Bo insieme ai due sottufficiali Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Mentre a Messina un filone di indagine è stato aperto dalla Procura nei confronti di alcuni magistrati, Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, che si occuparono al tempo delle prime indagini.
Intanto si riparte dalle due sentenze, Trattativa Stato-mafia e Borsellino quater, di cui quasi nessuno ricorda. Perché sono praticamente sconosciute all’opinione pubblica? Perché i giornali ne hanno parlato per i primi giorni, e poi tutto è tornato nell’oblio? Connivenza o semplice omertà, che spesso si traduce in omertà di Stato?
Infatti, ciò che indigna di più è confrontarsi con una verità costruita e manipolata rispetto ai fatti realmente accaduti, una verità finalizzata molto probabilmente a nascondere compartecipazioni esterne e quindi anche responsabilità di Stato dietro all’attentato. E' questo il cuore del depistaggio? E a ben vedere Scarantino rappresenta solo un tassello di un puzzle che appare ancora più grande.
E così Salvatore continua a raccontare le stranezze consumate dal primo momento della strage, facendo nomi e cognomi delle responsabilità che riguardarono i fatti accaduti. Come il magistrato Giovanni Tinebra che reggeva la procura di Caltanissetta, o il superpoliziotto Arnaldo La Barbera, ex capo della Mobile che istituì il gruppo di investigazione sulle stragi di Falcone e Borsellino. La Barbera, un funzionario che, non trovandosi più su questa terra, non potrà essere processato, che viene descritto nelle sentenze come uno degli artefici del depistaggio. Soltanto anni dopo le stragi si saprà che era stato anche un agente al soldo dei Servizi segreti. Servizi che ritornano sulla scena dal momento che Tinebra chiese all’ex numero tre del Sisde Bruno Contrada, successivamente condannato per concorso in associazione mafiosa (sentenza recentemente dichiarata “ineseguibile e improduttiva di effetti penali”), di collaborare nelle indagini. Collaborazione oltretutto, quella tra servizi segreti e ufficio di istruzione, vietata dalla legge. Come precisa Salvatore Borsellino, il pentito Gaspare Mutolo, che poco prima dell’attentato al Procuratore aggiunto di Palermo aveva iniziato a collaborare con la giustizia, rivelò chi era davvero Bruno Contrada e i suoi legami con la mafia. Paolo conosceva la natura dell’agente dei servizi segreti e lo incontrò all’interno del Ministero, quando venne chiamato da Nicola Mancino, al tempo Ministro dell’Interno appena insediato. “Paolo quel giorno torna a casa dicendo ‘al ministero ho respirato aria di morte’, lui sa chi è Contrada. Nel Ministero a mio avviso a Paolo viene detto di fermare le sue indagini perché lo Stato sta trattando con la mafia. Un colpo terribile per Paolo, per il quale fu ucciso”, dice Salvatore.
E infine, la sparizione della tanto nominata Agenda Rossa. Il primo atto del depistaggio, perché come spiega Salvatore Borsellino, quell’agenda interessava allo Stato, o meglio ai pezzi deviati dello Stato che in quel momento stavano trattando con la mafia. E uccidere il procuratore Borsellino, senza dissolvere nel nulla quei preziosi appunti, sconvolgenti prove della colpevolezza di uno Stato colluso, sarebbe servito a poco. “Oggi della trattativa tutti ne sentono parlare ma molti non sanno nemmeno cosa è, a questo è servita la sparizione dell’agenda rossa. Ora a nessuno interessa più, al tempo quando c’era il periodo della rivolta delle coscienze del popolo italiano nel nostro paese sentire parlare di una trattativa sarebbe stato dirompente”.
Oggi a voler scoperchiare le tombe del silenzio sono pochi, quei pochi che molte volte, per la sola “colpa” di voler servire fedelmente gli ideali di giustizia e verità, vengono attaccati e criticati.
Questo accade al magistrato Nino Di Matteo, spesso poco gradito alla politica e ai suoi stessi colleghi, che viene colpito da molti da accuse infondate circa la sua partecipazione al depistaggio. Anche Salvatore si pronuncia, distaccandosi su questo punto dalle accuse mosse dalla figlia di Paolo, Fiammetta Borsellino, dicendo: “Non condivido affatto questo attacco, Di Matteo è immune e l’ha dimostrato in più occasioni, anche con l’audizione davanti alla commissione antimafia e davanti al CSM. Sono assolutamente dalla sua parte”.
In conclusione, dopo quel maledetto 1992, dopo che l’obiettivo era stato raggiunto con l’eliminazione del magistrato, rimanevano solo da costruire le mura del dimenticatoio. Mura salde e resistenti, incrollabili. Mura all’interno delle quali si respira oggi il puzzo marcio dell’amnesia collettiva e volontaria di ciò che è stato, mura dentro le quali si rischia di essere contagiati dalla patologia più grave, il silenzio. Sintomo di una società in avanzante discesa verso la decadenza, morale e civile.
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