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casamonica giuseppe citofonodi Donatella D'Acapito
Stavolta non si parla solo di aggravante del metodo mafioso. Stavolta, per i Casamonica, l’accusa è di associazione a delinquere di stampo mafioso.
“Gramigna”. Si chiama così l’operazione che, alle prime luci dell’alba del 17 luglio, ha visto 250 carabinieri del Comando Provinciale di Roma eseguire 37 misure di custodia cautelare fra la Capitale, Cosenza e Reggio Calabria, nei confronti di altrettanti affiliati al clan dei Casamonica. Nel provvedimento, emesso dal Gip di Roma su richiesta della locale Dda, i capi d’imputazione vanno dall’usura, alle estorsioni, al traffico di stupefacenti, passando per l’intestazione fittizia di beni e l’esercizio arbitrario o abusivo delle attività finanziarie. Soprattutto, a 14 dei 37 soggetti viene contestata l’associazione mafiosa, fatto inedito per il clan sinti. E poi il sequestro di autoveicoli, attività commerciali e la palestra dove lavorava Domenico Spada detto Vulcano, ex pugile professionista, che vanta frequentazioni sulla carta inappuntabili.
Fra gli arrestati (4 sono ancora latitanti) ci sono tredici donne (una è Rosa Di Silvio) e alcuni componenti della famiglia Spada, imparentati con i Casamonica così come gli stessi Di Silvio. E poi anche Domenico Strangio, della omonima ‘ndrina di San Luca, che nelle carte viene indicato come uno dei “fornitori” di cocaina da piazzare a Roma. Un nome, quest’ultimo, che testimonia come non solo la famiglia sinti fin dagli anni Ottanta abbia rapporti con gli altri gruppi criminali, erano il braccio violento di Enrico Nicoletti, cassiere della Banda della Magliana, ma come si relazionino da pari con le mafie tradizionali, anche in virtù di rapporti nati all’interno del carcere durante i periodi di detenzione dei vari esponenti della famiglia.
Le indagini, iniziate nell’estate del 2015, prima dunque che esplodesse l’attenzione mediatica sul clan all’indomani del faraonico funerale di Vittorio Casamonica nella chiesa di San Giovanni Bosco, al Tuscolano, consegnano l’immagine di un gruppo che si è compattato negli anni attraverso vincoli di sangue e che è arrivato ad avere un controllo ferreo del territorio. Controllo di cui i sodali erano pienamente consapevoli, così come emerge da una intercettazione del settembre del 2000 di Giuseppe Casamonica, detto Bìtalo, il dominus del ramo della famiglia che controllava la zona con quartier generale nel vicolo di Porta Furba, in cui dice: “Tu quando dici Casamonica, a Roma hai detto qualcosa”.
E dalle mafie tradizionali i Casamonica hanno mutuato anche la capacità di intimidazione, la barriera di omertà che li circonda e il vizio di ottenere il consenso popolare, spacciando spesso per una risposta alle esigenze di chi è in difficoltà economica il reato di usura.
Eppure stavolta qualcosa non ha funzionato. Perché alla bravura degli investigatori, va aggiunta la collaborazione di due soggetti: quella dell’ex compagna di Massimiliano Casamonica, Debora Cerreoni, e quella di Massimiliano Fazzari, pregiudicato inserito nell’orbita delle attività criminali del clan - utilizzato all’inizio per il recupero estorsivo dei crediti da usura e poi finito lui stesso vittima per un prestito non restituito sempre a Massimiliano Casamonica.
Due collaborazioni che rappresentano un vulnus all’impermeabilità e all’omertà che determinano la forza del gruppo.
Sarà proprio Debora che, per amore dei tre figli, svelerà agli inquirenti le gerarchie interne al clan, oltre ai retroscena e alle dinamiche che tracciano tesi che senza di lei sarebbero rimaste solo ipotesi. Uno smacco, quello della donna, che pesa molto in termini simbolici. Pesa perché Debora, che non è di origine sinti, è sempre stata considerata inferiore rispetto alle altre donne del clan. E pesa perché le Casamonica hanno sempre avuto un ruolo attivo nella famiglia, che sia nella difesa - al limite del folklore - del territorio e dei loro uomini ogni volta che scattava una operazione di polizia giudiziaria, o che sia quello di fare da reggenti del clan durante i periodi di detenzione dei capi. Proprio come nel caso di Liliana Casamonica, detta Stefania, che - si legge nell’ordinanza - nel periodo successivo al 28 gennaio del 2009, data dell’arresto del fratello Giuseppe, “costituisce in Vicolo di Porta Furba un punto di riferimento per i sodali, fornendo un costante contributo per l’operatività del clan, (…) fungendo da “contabile” dell’organizzazione, occupandosi anche di gestire i rapporti con gli avvocati per conto dei sodali. Inoltre si reca a colloquio con i fratelli detenuti (fra cui Giuseppe e Massimiliano), che aggiorna sugli avvenimenti più recenti, ricevendo in tali occasioni da Casamonica Giuseppe direttive da eseguire direttamente e/o da comunicare a soggetti fuori dal carcere”.
L’importanza di queste due collaborazioni è stata sottolineata dal procuratore aggiunto Michele Prestipino: “I Casamonica non hanno soltanto una solidissima struttura organizzativa, ma i suoi componenti sono legati anche con vincoli di sangue. Sono questi i gruppi più temibili e più difficili da penetrare dal punto di vista investigativo. Qui abbiamo due collaboratori di giustizia, uno esterno e uno in qualche modo interno allo stesso gruppo, che hanno dato una chiave di lettura estremamente significativa di tutte le emergenze che avevamo raccolto grazie alle attività tecniche e sul territorio effettuate dai carabinieri”. Poi aggiunge: “Questo è un gruppo particolarmente forte anche per una sorta di riconoscimento, di marchio di origine noto negli ambienti criminali romani particolarmente significativo. Tracce di questo marchio le abbiamo trovate anche in attività investigative che hanno riguardato altri gruppi”.
“I Casamonica sono un gruppo criminale impenetrabile anche per la difficoltà oggettiva legata al fatto che molto spesso gli affiliati nelle loro attività non utilizzano la lingua italiana ma parlano il loro idioma, cioè la lingua dei Sinti”, specifica il comandante del gruppo dei carabinieri di Frascati Stefano Cotugno. E poi aggiunge: “Sono stati riscontrati alcuni episodi di violenza, ma va detto che il nome dei Casamonica incute timore nei cittadini. Ciò significa che gli appartenenti al clan non sempre necessitavano di usare violenza. Ci sono stati casi in cui pagare a vita i Casamonica significava avere una assicurazione per la vita di protezione. Ci sono stati casi in cui anche solo presentarsi come Casamonica significava ottenere quelle garanzie”.
Non ci sono zone franche a Roma. I romani lo sanno bene. Lo sanno quelli che hanno il coraggio di dire no ai soprusi e anche quelli che, al contrario, si lasciano prendere dall’indolenza o dal timore che fa chiudere loro gli occhi. Lo sanno i giornalisti che cercano semplicemente di fare il loro lavoro, di fare domande per raccontare l’accaduto e per questo vengono aggrediti.
L’ultimo rapporto della Dia descrive la Capitale come il luogo in cui “qualificate proiezioni delle organizzazioni di tipo mafioso italiane (siciliane, calabresi e campane in primis), sono riuscite agevolmente ad adattarsi alle caratteristiche socio-economiche del territorio”. Pezzi di mafie che “sanno perfettamente intersecare i propri interessi non solo con i sodalizi di matrice straniera ma, anche, con le formazioni delinquenziali autoctone che, pur diverse tra loro, hanno adottato il modello organizzativo ed operativo di tipo mafioso, per acquisire sempre più spazi nell’ambiente territoriale di riferimento”. Un effetto endemico che, fortunatamente, riguarda anche le procure e le aule di giustizia, che cominciano a riconoscere l’associazione a delinquere di stampo mafioso anche in luoghi non tradizionalmente mafiosi. E chiamare le cose con il loro nome è sempre il primo passo per confinarle, per renderle affrontabili.

Tratto da: liberainformazione.org

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