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fioravanti valerio c imagoeconomicaL’ex Nar sentito al processo Cavallini sulla strage di Bologna
di Antonella Beccaria
È stato l’esordio in aula dell’ex Nar Valerio Fioravanti, condannato in via definitiva per la bomba esplosa alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980. Il processo è quello a carico di Gilberto Cavallini, il neofascista che fece parte dei Nuclei Armati Rivoluzionari e che oggi è accusato di concorso nella strage per la quale sono già stati condannati in via definitiva Fioravanti, sua moglie Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. E se lei, sul banco dei testimoni nelle ultime tre udienze, ha respinto l’etichetta di estremista di destra, adesso anche la parola fascista diventa quasi di troppo, ad ascoltare suo marito.
Valerio Fioravanti, 60 anni, è stato riconosciuto colpevole di 93 omicidi, compresi gli 85 morti della stazione di Bologna, e gli sono stati comminati 8 ergastoli, oltre a 134 anni e 8 mesi di reclusione. In libertà vigilata dal gennaio 2007, il 18 aprile 2009 è tornato a essere un uomo libero, quarant’anni dopo i primi seri guai giudiziari. La sua carriera criminale, infatti, inizia alla fine degli anni Settanta dopo l’iniziale militanza nel Msi e nelle organizzazioni del Movimento sociale (è stato segretario giovanile a Monteverde). Di destra sì, dunque, ma il salto dalla destra parlamentare allo spontaneismo armato è avvenuto - secondo Fioravanti - non per una pulsione verso l’estremismo fascista, ma cogliendo e trasformando in pratica terroristica il malcelato disprezzo nei confronti di quei ragazzi terribili da parte dei vertici missini.

“Non ci piegammo al capo del fascismo, Delle Chiaie”
“Ci chiamavano spontaneisti intendendo che eravamo un’accozzaglia di anarcoidi senza un progetto”, ha raccontato Fioravanti che prese “questo termine“ e ne fece la “linea politica dei Nar” nella quale sarebbe stato assente “un progetto a media-lunga scadenza. Non volevamo prendere il potere e non volevamo nemmeno piegarci davanti al capo del fascismo di allora, Stefano Delle Chiaie”. Ribadendo il giudizio negativo sul leader di Avanguardia Nazionale, ha esteso parole di dubbio anche sull’ordinovista Massimiliano Fachini, che i Nar avrebbero voluto uccidere (Gilberto Cavallini ci provò, ma - ancora secondo la versione dell’ex terrorista - rinunciò pensando alla famiglia della sua vittima) e a ideologici neri come Paolo Signorelli.
Perché dubbi sui fascisti più anziani? “Per noi”, ha detto Fioravanti, “la regola era che se uno aveva più di vent’anni e non era mai stato arrestato, c’era qualcosa di strano”. In altre parole, alcuni dei “camerati” più attempati da cui i Nar volevano prendere le distanze li aveva conosciuti in carcere, ma - stando a quello che dice oggi - questi avevano un pedigree criminale troppo superficiale per non avere avuto legami con le forze dell’ordine o, peggio, con i servizi segreti. Lui, invece, per sé nega qualsiasi contatto con apparati di intelligence ed estende la stessa “purezza” al fratello Cristiano Fioravanti, poi divenuto suo accusatore, a Francesca Mambro e a un altro leader dei Nar, Alessandro Alibrandi, il figlio di un magistrato romano morto in un conflitto a fuoco con la polizia il 5 dicembre 1981.
Di Cavallini, però, non può dire lo stesso, come già aveva affermato Mambro. Di qualche anno più grande, l’attuale imputato, a cui Valerio Fioravanti era così legato ai tempi della clandestinità e della lotta armata, si dimostrò in seguito troppo vicino a principi dell’eversione nera come Carlo Digilio, l’armiere di Ordine Nuovo conosciuto anche con il soprannome di Ziotto (o Zio Otto). Inoltre, all’epoca dei processi, tra i Nar sarebbe serpeggiato un certo stupore per il fatto che Cavallini sembrasse più colpito dall’incriminazione per la bomba di piazza Fontana (12 dicembre 1969) di Digilio e del medico mestrino Carlo Maria Maggi, condannato definitivamente un anno fa per la strage di Piazza della Loggia del 28 maggio 1974. I romani, invece, sospettati di aver piazzato l’ordigno deflagrato nella sala d’aspetto di seconda classe alla stazione di Bologna, percepivano nei loro confronti meno trasporto. “Forse si vergognava”, è stata la conclusione.

La lettera a Tuti e le parole su Freda
Fitte, inoltre, sono state le domande della pubblica accusa e del presidente della Corte d'Assise Michele Leoni sugli scambi epistolari tra Fioravanti e Mario Tuti, l’assassino di due poliziotti accusato e assolto per la strage dell’Italicus del 4 agosto 1974, e sulla ferrea volontà di far evadere Pierluigi Concutelli, l’ordinovista condannato per l’omicidio del magistrato romano Vittorio Occorsio (10 luglio 1976). Loro non facevano parte del mondo in rapporti con ambienti estranei all’eversione nera, come servizi segreti o pubblici ufficiali? “Non li conoscevamo”, ha risposto Valerio Fioravanti, “e disconoscevamo la loro pratica politica, ma erano degli ‘sventurati’, meritevoli di aiuto perché avevano agito su ordine di qualcuno che poi li aveva abbandonati”.
A maggior ragione, per l’ex Nar, non c’è mai stato nessun rapporto con Licio Gelli, il capo della Loggia P2. L’unico ad averci avuto a che fare era stato Paolo Aleandri, il terrorista nero che fu tra i fondatori di Costruiamo l’azione. Era lui a incontrare Gelli, mai Fioravanti, sostiene quest’ultimo, aggiungendo tuttavia parole non del tutto negative per un altro personaggio di peso nel mondo del terrorismo di estrema destra, nonostante rientrasse a pieno titolo nei tanto osteggiati “tramoni” di Ordine Nuovo.
È Franco Freda, riconosciuto dalla Cassazione responsabile della strage di piazza Fontana, ma non più processabile perché già assolto da quell’accusa. A proposito di Freda, il collegio degli avvocati di parte civile ha chiesto l’acquisizione di una serie di documenti. Tra questi una lettera scritta il 22 luglio 1980 da Tuti, a cui anche Mambro e Fioravanti scrivevano dal carcere, e indirizzata allo stesso Freda. In quelle righe si considerava auspicabile una saldatura tra il mondo dello spontaneismo giovanile e il vecchio gruppo ordinovista.
Infine un’annotazione a proposito di Francesco Pazienza, l’ex consulente del direttore dei Sismi, il piduista Giuseppe Santovito. Le ultime due udienze hanno visto la lettura di due telegrammi consecutivi spediti da Pazienza, già condannato a 10 anni per i depistaggi alla strage di Bologna, per chiedere di essere convocato in aula per depositare alcuni documenti. Con il secondo, giunto una settimana più tardi, annunciava l’invio di quei documenti, il cui arrivo è stato reso pubblico a inizio udienza, con l’apertura di una busta che conteneva due fascicoli rilegati da una spirale bianca.
Ora i documenti saranno contati e censiti e poi saranno a disposizione delle parti. Il timore, tuttavia, è di trovarsi davanti ad atti che possano tentare di sviare ancora una volta il focus del processo. Tanto che nei giorni scorsi Francesco Pazienza, intervistato dal Fatto Quotidiano per dirsi vittima di una macchinazione del Sisde, aveva attribuito la responsabilità della strage al dittatore libico Muammar Gheddafi. A voler riportare d’attualità, sembra, una delle tante piste escluse a suo tempo dalle indagini.

Foto © Imagoeconomica

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