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orsatti pietro web2di Pietro Orsatti
Nel 1975, poche settimane prima di essere massacrato e oscenamente esposto nel fango all’Idroscalo di Ostia, Pier Paolo Pasolini aveva pubblicato un articolo spietato e lucidissimo in cui chiedeva un processo (non simbolico, ma penale) contro la Democrazia Cristiana, incarnazione della doppia morale di quella classe politica di allora – purtroppo così simile a quella di oggi – che così bene rappresentava l’Italia della maggioranza silenziosa dei “tengo famiglia”. Quell’Italia che a cadenze intermittenti si siede davanti alla tv o fa scorrere distrattamente la timeline del social preferito per vedere che dice il vip contrito sull’orribile delitto di 25 anni fa. Oggi, anniversario della strage di Capaci.
Il tempo di una generazione. Questo è passato, e con il tempo è diventata ancora più netta la tendenza a esorcizzare. La necessità che ci sia qualcuno che incarni e esorcizzi il senso di colpa.
Domenica scorsa sono andato con altri al cimitero di Rotoli di Palermo per un breve saluto davanti alla tomba di Francesca Morvillo, la moglie di Giovanni Falcone, anche lei scivolata nel tempo nell’ombra della memoria al solo ruolo di moglie dell’eroe, cancellando il suo ruolo di magistrato, insegnante, donna. Il cimitero, monumentale e contemporaneamente “sgarrupato”, bellissimo e sfregiato (come poteva mancare il segno, a sinistra guardando il mare, di orribili palazzoni dell’epoca di Vito Ciancimino assessore dei lavori pubblici?) è un monumento, quasi completamente sconosciuto, alle vittime di mafia. Decine e decine, se non di più solo in questo luogo. La montagna che domina le tombe, il mare che sembra mitigare la pietra. Una piccola cerimonia e poi a trovare altre lapidi, dove accarezzare una fotografia: Antonio Montinaro, Vito Schifani due degli uomini della scorta di Falcone morti 25 anni fa a Capaci e ancora quelle di un bambino Claudio Domino ucciso a 11 anni e di un ragazzo, Giammatteo Sole, ucciso solo perché senza neanche saperlo aveva conosciuto un suo coetaneo figlio di un boss “perdente”. “Quanti altri?”, ci siamo domandati camminando cercando di orientarci in quel labirinto di pietra. Quante vittime senza voce, senza un nome, senza una notorietà. Dimenticati, ma vittime. Eroi anche loro? Gli eroi non esistono, esistono solo esseri umani. E poi vittime da un sistema di potere che arriva, a volte solo per una ragione solo simbolica, a uccidere.
Neanche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano eroi, ma vittime, come tutti gli altri che popolano questa Spoon River del Mediterraneo. Gente che faceva il proprio lavoro e bene, che viveva, amava, sognava e rideva, che forse aveva nella loro normalità i propri egoismi. Ma è passata una generazione, e la necessità di auto assolversi delegando a un eroe preferibilmente morto il proprio disimpegno lascia senza parole. Perché la gente per bene quando chi non si adatta è in vita denigra e poi strumentalizza la figura dell’eroe dopo la sua morte.
Scrivevo un po’ di tempo fa:
Non serve nemmeno scomodare le ideologie per capire la natura del potere, soprattutto in Italia. L’evidenza della mercificazione del tutto – dai corpi alle idee – ci fa capire come l’unico motore sia sempre stato quello del potere inteso come insieme economico e sociale, famigliare e personale. Tutto il resto è solo fumo negli occhi. (…) oggi l’Italia si mostra per quella che è e che è sempre stata: familista, settaria, clientelare, opportunista, fino a trasformare lo stesso opportunismo in ideologia e poi in violenza. Siamo un popolo strano, noi italiani. Un popolo prima di sudditi, ma anche, in seguito, di militanti (pronti a cambiare milizia al primo tentennamento) e oggi di consumatori, senza però mai diventare cittadini. Siamo un popolo di “anti”: anticomunisti, antifascisti, antidemocristiani, anticapitalisti, antimafia.
Antimafia, ovvero essere contro il potere criminale. Una battaglia nobile, che dovrebbe essere trasversale, plurale, sacrosanta, fatta di tante voci differenti che si fanno una. Per una società fondata sulla legalità, sulla democrazia, sulla pluralità, appunto, delle voci. Non è così. Il nostro bisogno di appartenere a microscopici “club”, circoli esclusivi, gruppi settari ci porta ogni giorno che passa a essere sempre più divisi, antagonisti verso noi stessi invece che verso il potere; rancorosi, sospettosi perfino su questa battaglia che non dovrebbe avere, per una società moderatamente sana, alcun distinguo. Non uniti contro un unico obiettivo, ma divisi e impegnati a farci la guerra fra di noi, a escludere invece che includere.
Le radici di questo “non essere cittadini” di un Paese che presumiamo essere “normale” sono profonde. Affondano nel nostro ritenerci sempre i più furbi. Profondamente rassicurati dalla nostra prassi comportamentale del “tengo famiglia”.
E ora si fa mercificazione anche delle vittime arrivando perfino a imporre una sorta di divisione classista del tutto artificiale. Oppure a sovraesporre figure che, come Falcone e Borsellino, si trovano ora in prima linea non per scelta ma per deontologia professionale. Solo perché fanno il proprio lavoro e bene. Appellandoci a un concetto di legalità del tutto distorto che, infatti, pone sullo sfondo la giustizia che è degli uomini e non solo dei codici. Recentemente si è arrivati a cercare di appiccicare questa etichetta di legalità perfino a Peppino Impastato, che da attivista combatteva contro un sistema legale che conviveva, perché fondato proprio sullo sfruttamento di classe, con il sistema mafioso e con questi si intrecciava. Anche qui il perbenismo ha raggiunto le sue punte rimuovendo la radicalità delle lotte di Peppino e dei suoi compagni e trasformandolo in una sorta di paladino della legge e dell’ordine. Mentre per lui quella “legge” e quell’”ordine” che garantivano e coprivano e si facevano usare e usavano la mafia erano il nemico come zu Tano Badalamenti
Quello che temo, e credo di non essere il solo, è che venga trasmesso a chi verrà dopo di noi un vuoto di memoria. Trasformando la mafia in una sorta di porzione di umanità aliena alla comunità. Un nemico senza complici, senza appoggi. Terribile, tragico, misterioso, occulto, efferato: quanti aggettivi abbiamo letto e sentito nei giorni scorsi e che sentiremo ancora oggi che rischiano giorno dopo giorno di trasformarsi in inconsapevoli complicità, fino nascondere la vera faccia di quel potere legale (e anche della comunicazione) che con le mafie ha da sempre tendenza a stringere alleanze fino a diventarne prima complice e in alcuni, troppi, casi perfino “la stessa cosa”. Come si definiscono i mafiosi fra di loro. La stessa cosa. Con una faccia solo più semplicemente presentabile.

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