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dallachiesa murales borsellinoA Priverno la seconda edizione del Campus della Legalità
di AMDuemila
"Ad onor del Vero" è il titolo della seconda edizione del Campus della Legalità e della Cittadinanza Attiva, organizzato dall'Isiss "Teodosio Rossi" di Priverno in collaborazione con”Agende Rosse”. Tantissimi i ragazzi, i genitori ed i cittadini che sono stati presenti venerdì all’inaugurazione della tre giorni in cui si sono tenuti dibattiti, momenti di riflessione e spettacolo incentrati proprio sui temi della legalità e della responsabilità che ognuno può avere in questo percorso.
Immediatamente dopo l’inaugurazione, con gli onori di casa che sono stati fatti dal dirigente scolastico Anna Maria Bilancia, con lo svelamento del murale raffigurante l’immagine di Carlo Alberto dalla Chiesa, realizzato dai ragazzi della sezione Artistica dell’Isiss, nell’aula magna si è tenuta la presentazione del libro di Fabiola Paterniti, “Tutti gli uomini del generale” (edito dall' editore Melampo). Ospiti dell’incontro, moderato da Aaron Pettinari, erano la giornalista, il generale Gian Paolo Sechi, braccio destro di dalla Chiesa durante la lotta al terrorismo, Simona dalla Chiesa e Salvatore Borsellino.
Un libro importante in cui, oltre a ricostruire la storia del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, vero padre della Patria, si raccontano le vicende del Nucleo speciale operativo e dei ragazzi che hanno preso parte in quella lotta al terrorismo.
“In questo libro ho cercato di raccontare la storia con le parole di chi ha vissuto in prima linea quel momento storico - ha raccontato Fabiola Paterniti - Fino a quel momento avevo sempre sentito storie di ex terroristi, politici, intellettuali ma mai avevo sentito parlare uomini dello Stato. Quindi c’era questa voglia di conoscere la verità sul generale dalla Chiesa ma anhe sulla lotta al terrorismo. E’ stato Nando dalla Chiesa a presentarmi il generale Sechi che mi ha permesso di conoscere gli altri ragazzi del Nucleo. Una storia che può sembrare lontana ma che è importante conoscere perché hanno sacrificato moltissimo di loro stessi per un ideale ed un valore che riguarda l’intera comunità”. “Gli eroi - ha detto rivolgendosi ai ragazzi - spesso sono accanto a noi e non lo sappiamo. In realtà sono persone normali che nella loro normalità svolgono il lavoro con senso di giustizia e legalità e per questo noi dobbiamo dare un riconoscimento. Ho scoperto una storia straordinaria. Gil uomini di Dalla Chiesa erano la sua famiglia e lui per loro era non solo un capo ma un Padre che ha trasmesso loro valori altissimi. Vivevano in clandestinità con grandissimi sacrifici. Si chiamavano con nomi in codice, 'Dan', 'Trucido', 'Baffo', 'Ragioniere Severino', 'Principino'. Ancora oggi, per mantenere viva una vecchia abitudine, si chiamano così tra di loro e nessuno dei loro congiunti sapeva di quel lavoro segreto”.
A raccontare quegli anni difficili è stato il generale Sechi, che fu tra i primi a raccogliere le confessioni del primo pentito brigatista, Patrizio Peci.


“Il generale dalla Chiesa era un uomo che non cercava medaglie sul petto. Lui non guardava il risultato immediato ma voleva capire veramente ciò che c’era dietro le brigate rosse, capire cosa c’era dietro a quell’humus che foraggiava le bierre e tutto il meccanismo eversivo. Voleva lasciare un’eredità culturale professionale ed intellettuale. Aveva capito che dietro ai vari Curcio, Franceschini, Peci ed altri vi erano altri personaggi superiori. Personaggi che facevano di tutto e di più per alimentare la lotta eversiva. E per scoprirlo decise di andare molto a fondo, infiltrare degli uomini all’interno di queste organizzazioni”. Il libro svela anche dei retroscena poco conosciuti e inquietanti come quando, dopo l'arresto dei big brigatisti Alberto Franceschini e Renato Curcio, il ministero dell'Interno chiuse la struttura di Dalla Chiesa. Inutili le proteste di quegli uomini che, al Capo di Gabinetto del Viminale, fecero presente che i brigatisti avevano in Svizzera armi della Seconda Guerra, che le stavano portando in Italia, in Lazio, a Roma. “Ricordo perfettamente quel momento - ha detto Sechi - ci sentimmo maltrattati, vilipesi. E il generale in quel momento fu usato e mandato a fare altre cose come la lotta alle evasioni dalle carceri. Lui fece sempre il proprio dovere. Fu lui a indicare un nuovo sistema di sorveglianza interno alle carceri senza prescindere mai dal rispetto della natura umana. Il generale riusciva a farci sentire famiglia. Scherzava con tutti. Con lui non esistevano i gradi ma l’umanità delle persone ed i valori. Così siamo andati avanti. E sono sicuro che anche nella lotta alla mafia sarebbe andato fino in fondo per distruggere questo fenomeno. Purtroppo non gli sono mai stati dati i pieni poteri”.
Per l’assassinio sono stati condannati all’ergastolo i killer Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia e a 14 anni i collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Altrettanto vero è che, sempre all'ergastolo, sono stati condannati come mandanti i vertici di Cosa Nostra, ossia lo stesso Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Tuttavia non si conoscono i volti dei mandanti a volto coperto, probabilmente uomini di Stato. Quel che appare evidente è che a volere ed a beneficiare della sua morte non è stata solo Cosa nostra.
E anche di questo ha parlato Simona dalla Chiesa: “Ci sono dei vuoti enormi nella ricostruzione della verità e della giustizia. Mio padre cercava di scoprire cosa c’erano dietro ai killer ai terroristi ed ai mafiosi, voleva capire cosa si muoveva sulle teste degli italiani anche dietro ad apparenti titoli di professionismo e serietà. Grazie al processo portato avanti da Falcone e Borsellino abbiamo avuto giustizia sul piano dei killer e sulla cupola mafiosa ma dietro c’era altro che rimane nella nebbia per chi non vuole guardare. La mafia in quel momento non aveva convenienza nell’uccidere mio padre. Non aveva ancora i poteri per mettere in atto quel che aveva in mente. E non poteva nemmeno compiere delle indagini specifiche proprio perché non è quello il compito del Prefetto. E la mafia sapeva anche che uccidendo lui, la moglie e l’agente Russo avrebbe portato anche ad una reazione dell’opinione pubblica. Dunque perché si doveva uccidere?”. Simona dalla Chiesa, facendo riferimento alle parole che il padre disse al più volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti, poco prima di partire per la Sicilia (“Non avrò alcun riguardo per la parte inquinata della sua corrente”) ha ricordato un altro episodio, successivo al 3 settembre 1982. “Ai funerali ci fu una reazione da parte della città verso i politici che per la prima volta vennero presi a monetine, escluso il presidente Pertini. Tra i politici che non si presentarono vi fu Andreotti che intervistato da un giornalista sul perché non fosse sceso in Sicilia rispose di preferire i battesimi. Una risposta che per quanto mi riguarda vale un processo”. Infine la dalla Chiesa ha ribadito: “Oggi i vuoti sono colmati dai sentimenti di partecipazione, solidarietà ed affetto che tanti ragazzi, tanti insegnanti portano avanti. Da giornate come quella di oggi. Dai racconti dei ragazzi che hanno lavorato con mio padre e che ci aiutano a capire con profondità il significato della parola dovere e della parola patria. Un insieme di valori a prescindere dall’essere a nord, sud o centro”.
A concludere il dibattito è stato il grido di verità e giustizia di Salvatore Borsellino: “Purtroppo nel nostro Pese accanto ad uno Stato che ha valori importanti come quelli espressi dal generale dalla Chiesa, da Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, le forze dell’ordine, i ragazzi delle scorte che hanno sacrificato le loro vite per mio fratello e tanti tanti altri, ci sono anche pezzi deviati che operano in maniera contraria e criminale. Chi ha fatto sparire l’Agenda Rossa non è la mafia, così come chi ha ordito il depistaggio sulle indagini della strage o come chi ha fatto sparire i documenti dai computer di Falcone o dalla borsa di dalla Chiesa. C’è una parte di Stato che ha messo in atto una scellerata trattativa con la mafia. Forse non avremo una completa verità ma dietro alla nebbia qualcosa inizia a vedersi”. Il fratello del giudice Borsellino ha anche parlato del risultato del Borsellino quater con l’assoluzione di Vincenzo Scarantino, il cui reato di calunnia è prescritto ma a cui sono riconosciute le attenuanti in quanto indotto a rilasciare le false dichiarazioni: “Scarantino è stato vittima. Non era lui a dover esser messo sotto processo ma altri come i poliziotti o i magistrati come Tinebra e la Palma. Ora la Corte ha rinviato gli atti alla Procura e spero che finalmente si possa arrivare ad un processo rispetto a chi ha permesso che quel depistaggio è stato messo in atto”.

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