Nei racconti di Brizio Montinaro e Luciano Traina la memoria di uomini che non erano solo "scorta"
di AMDuemila
Luciano Traina, Brizio Montinaro, Marisa Garofalo. Sono loro i "fratelli e sorelle di sangue" accomunati dal triste, quanto ingiusto destino, di aver perso un familiare a causa della crudeltà mafiosa. Anche loro hanno portato la loro testimonianza ai ragazzi che hanno partecipato al primo Campus della legalità, a Priverno, che si è tenuto nel corso del fine settimana. Una due giorni che è stata davvero ricca di appuntamenti tra momenti di riflessione, musica, cultura, teatro. Tanti modi per cercare di capire in che Paese viviamo e cosa ognuno può fare per renderlo migliore. "Fratelli di sangue" in qualche modo è il dibattito che si lega direttamente a quello del primo pomeriggio, dedicato agli "Sbirri di frontiera" e che ha visto la partecipazione, tra gli altri, di due degli agenti sopravvissuti all'"Attentatuni" di Capaci, Giuseppe Costanza ed Angelo Corbo. Stavolta, però, il punto di vista è quello dei fratelli di due dei ragazzi delle scorte.
Spesso in questi anni, durante le commemorazioni delle stragi del 23 maggio e del 19 luglio 1992, quegli "angeli" che persero la vita accanto ai giudici Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, aono stati appellati con il nome, "i ragazzi della scorta". In realtà, però, quei ragazzi dela scorta hanno un nome, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina e anche a Priverno, così come era avvenuto lo scorso anno alle manifestazioni di luglio, si è cercato di ricordare il valore umano di ognuna di queste vite. Una memoria vera, resa possibile anche alla lettura di un monolgo scritto dall'attrice Annalisa Insardà. "Sarebbe facile chiamarli eroi - ha detto Luciano Traina - ma io posso anche dire che loro erano due poliziotti veri, che ho avuto la fortuna di conoscere anche come colleghi". E' una storia particolare quella del fratello di Claudio. "Sono entrato in polizia dopo la morte di mio cugino che fu ucciso in quello che è stato il primo caso a Palermo di tentato sequestro per estorsione negli anni'70. Ho lavorato in Sardegna, a Milano, poi alla Squadra mobile di Palermo. Mio fratello Claudio entra in Polziia nel 1986, dopo la morte di nostro padre. Disse che voleva seguire i miei passi. Ricordo che il 23 maggio 1992 i nostri sguardi si incrociarono a Capaci dove lui aveva accompagnato un magistrato. Non dicemmo nulla ma in quei giorni eravamo davvero carichi come le molle". Il suo è stato un racconto accorato, particolarmente sentito dai presenti. "Pochi giorni prima dell'attentato di via d'Amelio noi ci vedemmo. Eravamo andati a pesca, un hooby che ci univa. Lì mi disse che il giorno dopo non poteva essere subito presente alla nostra solita riunione di famiglia in quanto doveva fare la scorta a un giudice ma non mi disse chi. Alla domenica infatti noi ci vedevamo sempre a casa di nostra madre. Il giorno dopo però io riunii la famiglia ma Claudio non c'era più". "Il giorno della strage - ha proseguito - io ero pronto ad uscire di casa con la mia famiglia quando mia madre mi chiama e mi chiese dov'era Claudio. In tv parlavano di una bomba a Palermo. Io, in quanto ispettore di polizia giudiziaria, subito pensai al tipo di lavoro che dovevo svolgere, chiamai al 113 ma nesuno sapeva ancora niente. Andammo con un collega all'ufficio scorte e lì vidi altri ragazzi in terra, disperati. Chiesi cosa stesse accadendo e mi dissero che l'attentato era stato fatto contro Borsellino. Poi seppi che tra i nomi dei ragazzi che lo scortavano vi era anche mio fratello. Andamo in via d'Amelio e lo scenario era terrificante. Sentivo il molliccio sotto i piedi, la puzza di carne bruciata. Solo quando sono arrivato davanti alla portineria capii che lì io ero di troppo perché non c'era più nulla da fare. Sulla pensilina c'era un pezzo del seno di Emanuela Loi. Così tornai a casa e riunii la mia famiglia. Spiegare il perché di tutto questo resta ancora oggi difficile. Il perché di quella violenza. Però è importante parlarne, soprattutto con i ragazzi giovani. Affinché possano comprendere e fare una scelta".
Sull'importanza di incontri come quello di Priverno è intervenuto anche Brizio Montinaro che ha raccontato il percorso che lo ha portato dopo oltre sedici anni a far sentire la propria testimonianza. "Questi 24 anni sono trascorsi come se non fossero mai passati - ha ricordato - la memoria torna sempre a quei giorni. Per sedici anni non ho partecipato a nessuna manifestazione perché non sopportavo la strumentalizzazione mediatica, ad ogni livello, di quelle stragi, di quelle morti. Capita persino dentro le famiglie con il rischio di rivivere due volte una tragedia che poi non ci permette di vivere il ricordo in maniera sana ed autentica. Oggi forse la mafia non uccide più, c'è una sorta di pax, ma diventa importante parlare di quanto accaduto per capire cosa è accaduto in quel 23 maggio e in quel 19 luglio. Due stragi secondo me contigue al punto da poterle pensare come un'unica. Noi non dobbiamo dimenticare. Non dobbiamo dimenticate che Dell'Utri è in galera, che ci è stato un Presidente della Regione come Cuffaro, che tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta c'erano degli assetti mondiali che stavano cambiando. Forse è anche a causa di questi che i nostri cari hanno pagato il prezzo più alto". E sul ricordo del fratello Antonio ha aggiunto: "Antonio era una persona davvero brillante. In famiglia non pensavamo che il suo cammino era quello della carriera in polizia. Ricordo anche quando mi disse che voleva andare come volontario a Palermo per il maxi processo. Mi disse che c'era un giudice, Giovanni Falcone, che lo aveva colpito nel profondo. Lo considerava così tanto che gli diede lo stesso nome al suo secondo figlio. Poi arrivò il giorno della strage. Io ero a Firenze dove ho vissuto per oltre vent'anni. Capii che era accaduto qualcosa di grave e chiamai alle mie sorelle per far spegnere il televisore in casa. Ricordo che non trovai subito un volo aereo per raggiungere Palermo. Durante l'attesa vedevo ovunque il volto di mio fratello e per la prima volta piansi". All'incontro, in cui è anche stata ricordata la storia di Attilio Manca, ha anche fatto un breve intervento la sorella di Lea Garofalo, Marisa, che ha ricordato ai giovani: "Quello che è successo a Lea poteva succedere a chiunque. Lei non ha commesso colpe. L'unica è stata quella di innamorarsi, a sedici anni, di quel ragazzo che l'ha poi portata alla morte. Io ai giovani dico di stare attenti. Quando vedete qualcuno con le machcine di lusso, i vestiti firmati, chiedetevi sempre da dove provengono quelle ricchezze, cosa fa quella persona e cosa la sua famiglia. Si deve stare attenti anche a questo, nel mondo di oggi".