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funerali-casamonica.repubblicadi Emiliano Federico Caruso - 21 agosto 2015
Quartiere Tuscolano, a sud di Roma, vicino ad alcune delle strade più importanti e trafficate della Capitale, è una zona famosa nella storia: Pasolini vi passeggiava con malinconica nostalgia e le dedicò anche alcuni versi della sua sterminata produzione letteraria, lì vicino si trovano poi gli studi di Cinecittà, la terra dei sogni di Federico Fellini, di Vittorio De Sica e della migliore cinematografia italiana.
Giovedì 20 agosto, una mattina di sole piacevole, non asfissiante come nelle settimane precedenti, la piazza di fronte alla chiesa di Don Bosco è gremita di gente vestita a lutto, triste, molti sono in lacrime. Si capisce che è un funerale, forse di uno importante, vista la folla e la gran quantità di macchine di lusso, tra Jaguar e Suv parcheggiate in doppia fila nei paraggi al punto da bloccare il traffico della Tuscolana, già lento in condizioni normali. Arriva una carrozza, antica, bellissima ma forse un po’ pacchiana, trainata da sei cavalli con tanto di pennacchi, una banda fa partire la colonna sonora de «Il Padrino», mentre una folla ormai adorante inneggia commossa e trasporta all’interno della chiesa una bara con sopra un’immagine di padre Pio. Sembra il funerale di un eroe del popolo, di un capo religioso. Finita la funzione religiosa la bara viene caricata su una Rolls-Royce e trasportata verso il cimitero del Verano, ma c’è tempo per un ultimo omaggio, mentre un elicottero inizia a far piovere petali di rosa sul feretro.
Ma dentro quella bara non c’è un capo di stato, né una personalità religiosa. Già i manifesti sparsi intorno alla chiesa fanno capire chi sia il defunto: un uomo di circa 60 anni, circondato da immagini del Colosseo e di San Pietro e dalle scritte «Hai conquistato Roma, ora conquista il paradiso» e «Vittorio Casamonica re di Roma». Sì. perché in quel feretro trainato in mezzo a una folla adorante sotto una pioggia di fiori non c’è un eroe del popolo, c’è lui: Vittorio Casamonica, boss di una delle famiglie mafiose più famose e antiche della Capitale, morto di tumore all’età di 65 anni.

Il clan Casamonica, di etnia sinti, era giunto nella Capitale negli anni ’50. Abili investitori di capitali, hanno attraversato 40 anni della peggiore storia criminale di Roma, dalla Banda della Magliana fino a Mafia Capitale. Iniziarono con il commercio di cavalli, per poi fare il salto di qualità negli anni ’70 con i prestiti a usura (con un tasso d’interesse tra il 200 e il 300%), le estorsioni, il settore immobiliare e il traffico di droga in mezza Europa, guadagnandosi un enorme potere economico (90 mln di euro, secondo la Dia) e criminale, grazie anche all’abilità nell’intrecciare alleanze con altri clan, tra i quali i Casalesi, gli Alvaro, i Molè e i Piromalli. Lo stesso Vittorio, che negli anni ’90 risultava nullafacente ma deteneva capitali di decine di milioni di euro, negli anni ’80 riscuoteva i crediti per conto di un certo Enrico Nicoletti, noto usuraio e cassiere della Banda di Renatino De Pedis.
Ancora nel 2004, nel corso dell’operazione Esmeralda, vennero sequestrate al clan decine di milioni di euro tra ville, conti correnti, auto di lusso e oggetti di antiquariato. Con un simile curriculum criminale, è comprensibile lo scandalo sollevato dai funerali in pompa magna di Vittorio Casamonica, per giunta nella stessa chiesa che nel 199o ospitò i funerali di Enrico «Renatino» De Pedis, diventato capo assoluto della Banda della Magliana nell’intero arco degli anni ’80, dopo la morte di Franco Giuseppucci e Maurizio Abbatino. A quei funerali seguì persino la sepoltura nella chiesa di S. Apollinare, ma questa è un’altra vicenda.
Per la cronaca, nella chiesa di Don Bosco si proibirono i funerali di Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare che fino all’ultimo lottò in favore dell’eutanasia. In quell’occasione il rifiuto, che ancora pesa alla vedova Welby, venne dal cardinale Camillo Ruini. Insomma, va bene essere criminali, mafiosi, assassini, usurai e trafficanti di droga, ma non sia mai che si conceda un degno funerale a chi chiede di morire con dignità.
In seguito al pomposo funerale (che nel mondo mafioso sembra una moda, un modo per manifestare potere economico e criminale: anche alle esequie di Lucky Luciano vi furono carrozze, cavalli e fiori) il sacerdote che ha officiato la cerimonia, don Giancarlo Manieri, è caduto dalle nuvole affermando di essere all’oscuro dell’identità del defunto. Le sue responsabilità, infatti, si limitano all’interno della chiesa. Al momento di organizzare il funerale, chiese solo di osservare la massima discrezione durante la cerimonia. Una discrezione fatta di elicotteri (il pilota, ex Alitalia, è stato appena denunciato per non aver presentato il piano di volo e i permessi necessari), fiori, carrozze e ovazioni. Nemmeno la prefettura era stata avvisata, insomma hanno fatto tutto da soli.
La mafia si è sempre nascosta dietro la religiosità di pura facciata: solo un anno fa una processione religiosa a Oppido Mamertina ha stazionato, per omaggio, davanti alla casa del condannato all’ergastolo Peppe Mazzagatti. Tutto questo nonostante la scomunica di Bergoglio ai mafiosi di ogni clan. Al di là del comprensibile scandalo, l’episodio è emblematico di una totale mancanza dello Stato, e lo stesso funerale sarebbe quasi un episodio pacchiano da dimenticare, se non fosse anche estremamente offensivo nei confronti di quei magistrati, giornalisti, forze dell’ordine e persone comuni che ogni giorno combattono il cancro-mafia rischiando la vita, e talvolta perdendola.

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