Il nuovo libro del figlio di Giorgio Ambrosoli nel 36° anniversario del suo omicidio
di AMDuemila - 11 luglio 2015
Una bambina palermitana torna a casa da scuola, dove le hanno raccontato la storia di Libero Grassi. "Tu non lo paghi il pizzo, vero?", chiede al padre commerciante. "No, non lo pago", risponde lui, pieno di vergogna. E da quel momento smette sul serio di farlo, aiutato dalle associazioni antiracket. E' solo una delle storie - anzi, un frammento di storia - raccontate da Umberto Ambrosoli nel suo ultimo libro, che si intitola semplicemente 'Coraggio'. Una parola che per l'autore, avvocato penalista e consigliere regionale in Lombardia, designa un moto del cuore, una virtù civile che ciascuno può esercitare nella quotidianità. Non è eroismo, non è spavalderia, è l'arte di affrontare la paura. E non è affatto fuori moda, come potrebbe far pensare il titolo della collana del Mulino, 'Parole controtempo', tutt'altro. Il volumetto parte dal ricordo ineludibile del padre Giorgio, ucciso 36 anni fa - era la notte fra l'11 e il 12 luglio del 1979 - da un sicario al soldo del faccendiere siciliano Michele Sindona, sulle cui attività Ambrosoli stava indagando come commissario liquidatore della Banca privata italiana. Alla sua vicenda umana e professionale, il figlio Umberto ha già dedicato 'Qualunque cosa succeda. Storia di un uomo libero' (Sironi 2009). Ora lo sguardo si allarga ad altre figure del nostro tempo, che con responsabilità, consapevolezza e senso del dovere hanno saputo opporsi alle minacce della malavita, alle pressioni di un sistema compiacente o addirittura colluso con essa, all'assenza colpevole delle istituzioni. "Il coraggio, uno, se non ce l'ha, mica se lo può dare", dice Don Abbondio nei 'Promessi Sposi'. Ambrosoli ci spiega che non è esattamente così, perché la paura non è una condanna inappellabile e il suo contrario - il coraggio appunto - "può crescere e maturare nel corso della vita, man mano che la storia personale di ciascuno si arricchisce di esperienze e dati culturali". Di esempi, dunque: proprio come se ne trovano in queste pagine, pescati fra nomi illustri - come quello di Tina Anselmi, di cui è riportata una riflessione sull'esperienza di partigiana - e altri meno conosciuti, fra imprenditori, liberi professionisti, uomini di Chiesa. Gente normale, che non aveva scelto un mestiere di quelli che di per sé comportano rischi alla propria incolumità, ma che a un certo punto si è trovata davanti un'insidia e ha dovuto scegliere: "Resistere o ritirarsi, cioè annullare il senso del proprio ruolo". Quello che accomuna persone come Giuseppe De Masi, produttore di macchine agricole, l'avvocato Serafino Famà, il sindaco di Monasterace (e futura ministra) Maria Carmela Lanzetta è appunto la scelta di resistere, senza clamore, per se stessi ma anche in nome del senso di responsabilità verso i propri dipendenti, assistiti, concittadini. E forse soprattutto verso la propria famiglia, come ci rivelano quel piccolo racconto del negoziante siciliano e la stessa confidenza fatta da Giorgio Ambrosoli a un conoscente, poco prima di morire: "Non posso insegnare ai miei figli a non fare, per paura, ciò che reputano giusto". (fonte Ansa)
Umberto Ambrosoli “Coraggio”
In occasione del 36° anniversario dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli riproponiamo un’intervista di alcuni anni fa rilasciataci da suo figlio Umberto che mantiene intatta l’attualità del pensiero di chi ha ereditato i valori di un uomo al servizio dello Stato, che è stato lasciato solo dalla parte criminale delle nostre istituzioni.
Umberto Ambrosoli: Mio padre, la scelta di un uomo libero
di Lorenzo Baldo - 16 novembre 2009
Porto Sant'Elpidio (FM). VI edizione del Premio letterario nazionale “Paolo Volponi”: “Letteratura e impegno civile”. Incontriamo Umberto Ambrosoli, figlio dell'avv. Giorgio Ambrosoli (ucciso dalla mafia su mandato del finanziere Michele Sindona il 12 luglio 1979) alla presentazione del suo libro “Qualunque cosa succeda”.
Umberto Ambrosoli aveva appena otto anni quando uccisero suo padre. Ora è un avvocato milanese dall'aspetto mite e sereno, ma altrettanto determinato nelle sue convinzioni sulla fondamentale importanza della legalità come un'unica via di evoluzione per una civiltà. Un uomo radicato nella certezza che è sempre possibile scegliere da che parte stare e che nessuno ci obbliga ad omologarci a qualche cosa che non condividiamo.
Lei ha detto recentemente “Le ragioni di quell'omicidio le ho capite piano piano” aggiungendo poi “mio padre sarebbe ancora solo: oggi come trent’anni fa. La società continua a non vedere nella legalità un valore”. In questi anni ci sono delle ragioni che si è dato (sull'omicidio di suo padre) che hanno preso il sopravvento su altre? E come è giunto a simili considerazioni?
Sono le stesse considerazioni che ha citato poc'anzi. Nel delitto di mio padre ci sono due tipologie diverse di responsabilità: da un lato quella di chi ha voluto un omicidio ed è ovvio che vada ricondotto ad un gruppo estremamente ristretto di persone, con loro si potrebbe mettere chi lo ha reso possibile, cioè chi ha fatto in modo che Sindona individuasse in Giorgio Ambrosoli l’unico ostacolo, dall'altro c’è anche un livello di responsabilità totalmente diverso dato dalla collettività che non vede nel rispetto delle regole un valore da tutelare ma un problema di qualcun’altro, invece il problema è nostro. Da questo punto di vista l’Italia di allora non è diversa dall’Italia di adesso. Oggi il cittadino non vede la legalità come un momento di unione e invece la legalità, cioè l'adesione al complesso delle regole, è ciò che consente la vita di una società. Se si tolgono le regole a una civiltà si ha solo un insieme di persone in una dimensione barbara.
Percepire le regole come un elemento che non serve per la crescita della collettività e soprattutto eludere le regole per l'affermazione esclusiva della propia persona è un problema non dissimile da quello dell'Italia di allora. Oggi come allora, infatti, il nostro Paese non brilla certo per valori etici, per senso di giustizia, e anche uscendo da una dimensione istituzionale, arrivando a quella del commercio ad esempio il nostro Paese ha delle grossissime difficoltà a confrontarsi a livello internazionale anche in relazione al rispetto delle regole. Ma, oggi come allora, l’Italia ha e può avere anche i Giorgio Ambrosoli.
Giorgio Ambrosoli in un'intervista di 32 anni fa aveva detto: “Sindona non lo considero un'eccezione. Di Sindona probabilmente ce ne è qualcuno ancora in giro: cambi il nome, cambi la faccia ma la sostanza rimane”. Quali differenze vede tra “i Sindona” di allora e “i Sindona” di oggi?
Quell'intervista ci dice ancora oggi che il sistema non ha trovato ancora dei modelli per affinarsi tali da mettere all'angolo chi costruisce castelli di carta, chi inganna, chi crea il potere attraverso degli strumenti che si concretizzano nel danno dell’altra persona. Anche dal punto di vista finanziario leggere l’integralità di quell’intervista dimostra come fenomeni di distacco tra il mondo economico e il mondo finanziario, cioè tra la produzione del bene del servizio e la dimensione meramente finanziaria, creino dei disastri.
Nel processo per l’omicidio di suo padre ritiene che vi siano responsabilità a livello politico-istituzionale sulle quali non è stato possibile fare piena luce?
No, anzi, ritengo che le ragioni che hanno determinato quell’omicidio siano davanti agli occhi di tutti da tantissimi anni. Nel libro che ho scritto non c’è niente di nuovo, non c’è niente che ci aiuti a capire il fatto storico, che non sia davanti ai nostri occhi da tanto tempo. Il problema è che non facciamo i conti con quell’omicidio, con il perché, come e quando è stato ucciso Giorgio Ambrosoli. Prendiamo ad esempio il paradigma della loggia P2, si sono fatti i conti con quella realtà? A partire da quale contesto di indagine ne abbia permesso la scoperta? Non dico solo dal punto di vista giudiziario, perché con fatiche enormi ci siamo fatti un’idea di che cosa fosse la loggia P2, ma si sono fatti i conti per stabilire se era o meno tollerabile? Oggi assistiamo ad un fenomeno opportunistico di svalutazione del contenuto di quella aggregazione. Ma usciamo dall’oggi, guardiamo nel 1990, essere stato iscritto alla P2 era o no una ragione di esclusione da un determinato mondo? E prima ancora, aver capito quale fosse il fine e lo scopo, soprattutto i metodi della P2, è valso a delineare una linea di distinzione oppure no?
Per quanto riguarda Andreotti e il potere che gestiva a quell'epoca, come valuta il suo operato, così come le sue omissioni, quello che non ha fatto, nel bel mezzo della liquidazione della Banca Privata, prima e dopo l'omicidio di suo padre?
A me di Andreotti interessa assai poco, questo è un libro dedicato ai miei figli, l’ho fatto per loro che vivranno un’epoca in cui Andreotti sarà molto probabilmente il nome di una piazza o in qualche monumento e approfondendo la storia chiunque si farà una propia idea. Capirà così se c'è di mezzo l’oceano tra l’immagine istituzionale ricoperta da mio padre e quella di tantissimi altri nomi anche se hanno avuto un ruolo e una responsabilità maggiori di lui in quella storia.
La stessa domanda gliela rivolgo nei confronti del potere politico, economico e religioso dell'epoca. Come valuta le rispettive azioni ed omissioni in merito alla vicenda che ruota attorno a suo padre, prima e dopo l'omicidio?
Bisogna evitare di fare di tutta l’erba un fascio, non dimentichiamoci che il potere politico dell'epoca era rappresentato da Andreotti ma anche da Ugo La Malfa. Era rappresentato da chi era con Sindona e da chi vi era contro, ma anche da chi non aveva la capacità di prendere una posizione, di informarsi perché anche quella è una forma di responsabilità. Per quanto riguarda il potere religioso al limite possiamo parlare del potere economico legato alla Chiesa o del potere economico indipendente dalla Chiesa, ma anche lì, sono gli uomini che fanno le istituzioni.
Lo Ior è uscito giustamente con le ossa rotte dal Banco Ambrosiano e prima ancora dalla Banca Privata Italiana. E questo perché proprio lo Ior in quel periodo aveva deciso di diventare una banca con gli stessi “scrupoli morali” di tutte le altre e cioè estremamente bassi. Da allora però il sistema bancario è molto migliorato, non è solo ed esclusivamente al servizio del potere, non è solo ed esclusivamente utilizzato o principalmente utilizzato per la creazione di una forma di potere alternativo. Anche guardando il sistema economico-finanziario e quello bancario ci rendiamo conto come le istituzioni possano creare delle barriere che nascono dall’esperienza di quegli anni. L’accordo di Basilea I e quello di Basilea II (le linee guida in materia di requisiti patrimoniali delle banche ndr) ci dicono che in un mondo economico così interconnesso a livello internazionale (dove è difficile guardare una legislazione e trascurarne un’altra e dove alcuni hanno avuto la capacità di prosperare nelle falle lasciate dalle singole legislazioni), si è creata una legislazione uniforme o per lo meno si è cercato di farlo. A questo servono anche storie come queste, a farci vedere quali sono i limiti e, paradossalmente, potremmo dire che persone abili e capaci, come certamente era Michele Sindona consentono di vederlo un poco prima che il disastro sia sistemico.
In questi anni come ha analizzato la morte del killer di suo padre, William Aricò, avvenuta in maniera alquanto singolare?
La sua morte non è singolare. William Aricò è una persona che ha commesso un’enormità di crimini, che ha fatto una serie di confessioni agli inquirenti americani nella prospettiva di un accordo sulla sua pena; accordo che non si è raggiunto, ragione per cui Aricò ha cercato di evadere come aveva fatto altre volte nella sua vita ma questa volta non c’è riuscito ed è morto cadendo dalla finestra dalla quale cercava di calarsi. La stessa domanda lei potrebbe farla anche in relazione a Michele Sindona, si è ucciso o è stato ucciso? Si è ucciso, ma non perché io abbia bisogno di dirmelo, ma perché ci sono fior di accertamenti che chiariscono in termini giudiziari, e non solo, l’evidenza del suicidio. Il punto è che abbiamo continuo bisogno di pensare sempre che c’è qualcosa d’altro, abbiamo bisogno di pensare che qualcuno ha fatto fuori Aricò, abbiamo bisogno di pensare che qualcuno abbia fatto fuori Sindona perché così evitiamo il confronto con quella realtà, così restiamo convinti di doverci confrontare con qualcosa che va molto oltre le evidenze che noi abbiamo, che va molto oltre la nostra capacità di guardare. E allora da un lato costruiamo qualche cosa di negativo perché non è edificante lottare contro un nemico invincibile e dall’altro evitiamo di assumerci le nostre responsabilità, cioè di dire: “Io posso fare qualche cosa, io singolo cittadino posso fare qualche cosa. E la prima cosa che posso fare è vivere in termini coerenti con i principi fondamentali di una convivenza e quindi con il rispetto delle regole, con il rispetto dell’altro che è il rispetto delle regole. Io posso dire agli altri: per me queste cose sono importanti, e lo faccio attraverso la mia vita, così costruisco la legalità”. L’esempio è proprio questo. La sintesi bella della vicenda comunque certamente drammatica di mio padre è che una persona può essere libera, può essere se stessa, può fare le cose che ritiene giuste sia che gli dicano: “Ti compriamo”, e dice di no, può farlo sia che gli dicano: “Sei sola” e lei può dire: “Non mi interessa”, può farlo anche se gli dicono: “La tua vita finisce” perché tu vuoi essere te stesso. Nessuno ci obbliga ad omologarci a qualche cosa che non condividiamo e questo vale per tutti i livelli di responsabilità, per tutti.
Nel suo libro c'è una dedica a sua madre: “Che ha permesso che papà fosse se stesso fino in fondo, che ha saputo farmi vivere – su tutto – l'enorme valore positivo della storia di papà e delle sue scelte, che – sempre – va avanti”. Il ruolo di sua madre è fondamentale nella storia di Giorgio Ambrosoli. Secondo lei come sarebbero potute cambiare le scelte professionali, e non solo, di suo padre se sua madre lo avesse avvisato di aver letto la lettera che lui le aveva scritto?
Penso che mio padre avesse capito che mia madre, ad un certo punto, aveva colto il contenuto sostanziale di quella lettera e che proprio con questa consapevolezza si sia fortificato perché lei non ha fatto niente per impedirgli di essere la persona che lui desiderava essere. E di esserlo, non per una affermazione personale, ma proprio per il rispetto del vincolo che con lei aveva. Si sono conosciuti rappresentando uno all’altro determinati valori e li hanno portati avanti, si sono conosciuti pensando di mettere al mondo una famiglia che credesse in quei valori e hanno dato assieme quest’esempio.
Quindi non sarebbe cambiato nulla?
Penso proprio di no.
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Info: associazionecivilegiorgioambrosoli.it