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adinolfi-paolodi Giuliano Girlando - 1° marzo 2015
“Chi sa, ed ha mantenuto il silenzio fino ad oggi, trovi la forza di raccontarci a verità: noi continuiamo ad aspettare, e non smetteremo mai di cercarlo”.
Questo è stato l’ultimo appello  comparso su due quotidiani (in cronaca di Roma del Messaggero e del Corriere della Sera) di Nicoletta, Giovanna e Lorenzo, moglie e figli di Paolo Adinolfi, magistrato della Repubblica Italiana, che più di  vent’anni fa, il 2 luglio del 1994, spariva nel nulla. Da quel momento fino ad oggi , la famiglia combatte per la verità. La verità però non è mai arrivata poiché questa storia si è arenata tra depistaggi, indagini svolte in modo approssimativo e archiviazioni. Nel 1997, dalle dichiarazioni di un pentito Francesco Elmo escono delle rivelazioni sul giudice Adinolfi  che doveva essere messo a tacere perché era sul punto di rivelare i misteri del fallimento Fiscom,  società legata a personaggi del mondo dei servizi segreti e della malavita organizzato. Secondo il pentito, il giudice Adinolfi sarebbe stato ucciso da componenti della Banda della Magliana su mandato dei servizi proprio in relazione al caso «Ambra». Elmo racconterà di aver visto il magistrato poco prima della sua scomparsa in un albergo di Roma insieme a due persone, e poi di aver riconosciuto quei due accompagnatori del giudice grazie alle informazioni fornitegli da Mario Ferraro, colonnello del SISMI che pochi mesi dopo sarà trovato «suicidato» tramite impiccagione a un termosifone. Di questo la moglie Nicoletta è sempre stata convinta: “Paolo è sparito perché dava fastidio ai malaffari della Fallimentare.”

Paolo Adinolfi quindi, fino a due anni prima della sua a scomparsa, si era occupato del fallimento della «Fiscom», società nelle quale ha avuto un ruolo di rilievo Enrico Nicoletti, il «cassiere» della Banda della Magliana finito sotto processo per bancarotta fraudolenta insieme tra gli altri a Michele Di Ciommo, il «notaio» della stessa banda che comparirà anche nel fallimento dell'«Ambra assicurazioni» e in una lunga serie di «affari» come il caso De Lorenzo, le vicende IMI-SIR e «Toghe sporche». La «Fiscom», fu fondata da personaggi come Giorgio Paolini, prestanome dell'ex amministratore delle ferrovie Lorenzo Necci e tra i cui soci compariva anche il generale Walter Bruno, iscritto alla P2 ed ex proprietario dell'«Ambra», risultò connessa a sua volta con un'altra controllata, la «Cima», un cui socio, Alfonso Conte, verrà accusato dai pentiti di riciclaggio di fondi della camorra. Nelle perquisizioni presso la sede della «Cima» verranno trovati messaggi indirizzati ai faccendieri Flavio Carboni e Francesco Pazienza, gli stessi che avrebbero intrattenuto rapporti con alcuni giudici del Tribunale fallimentare di Roma finiti poi sotto indagine per vicende come le parcelle d’oro e per assegnazioni pilotate delle cause.
«Mio marito mi diceva: secondo me dietro questi crac c'è la camorra... I comportamenti di alcuni colleghi gli apparivano poco chiari... Non riusciva a ottenere in tempi rapidi risposte dai periti... » raccontò ancora Nicoletta Grimaldi, vedova del giudice Adinolfi. Nel 1992, due anni prima della sua scomparsa, suo marito tornò da una vacanza e scoprì che gli era stato revocato l'incarico su un altro fallimento delicatissimo: quello della «Casina Valadier», che era di proprietà di Giuseppe Ciarrapico. «Paolo, a quel punto, decise lasciare il tribunale fallimentare. Continuò però il suo impegno civile su quel fronte. Anzi, non si dava pace. Chiedeva consigli ai colleghi più anziani. Voleva testimoniare da privato cittadino, come persona informata sui fatti». Il magistrato, qualche giorno prima di sparire, parlando al telefono con il pm di Milano Carlo Nocerino, lo informò su dei fatti riguardanti le indagini allora in corso sul crac dell'«Ambra assicurazioni. Da una interrogazione alla camera dei deputati su queste vicende emergerebbeche che lo studio notarile Di Ciommo a Roma, sarebbe stato per parecchi anni punto di riferimento per la Roma politica, della finanza e dei grandi affari e con circa 30 dipendenti riusciva a gestire fino a 5.000 pratiche al mese; che tra i clienti di Di Ciommo ci sarebbe stato anche il signor Enrico Nicoletti, famoso finanziere della «banda della Magliana», che sarebbe anche anello di congiunzione tra criminalità organizzata, banche ed istituzioni; che di particolare rilievo sarebbe l’operazione relativa all’acquisto della società assicurativa «Ambra», del tutto anomala per quanto riguarda le garanzie, visto che la banca incaricata del finanziamento respingeva il «progetto CIMA» e concedeva un finanziamento più consistente alla Fiscom spa di Salvatore Tuttolomondo per 30 miliardi, che si assumeva debiti della CIMA con la Cariri ed il Credito fondiario relativi all’operazione «Pratidia» e se ci sarebbero riscontri sul fatto che il signor Antonino Mattarella avrebbe incassato 365 milioni delle vecchie lire da Enrico Nicoletti, come risulterebbe da documento peritale ordinato dal tribunale di Roma nel contesto del processo Cariri-Cariplo, e se tali somme sarebbero servite per le famose operazioni immobiliari di Cortina.
Forse oggi sarebbe il caso di riaprire le indagini e fare luce dopo i fatti di Mafia Capitale e quelli che hanno coinvolto la fallimentare. Per questo ci appelliamo al procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone: riaprire le indagini sul giudice Paolo Adinolfi.

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