La Dia colpisce il "sistema economico-mafioso" agrigentino
di AMDuemila - 27 gennaio 2015 - Video
Cinquantaquattro milioni di euro. Questo il valore complessivo dei beni sequestrati questa mattina dalla Direzione Investigativa Antimafia di Agrigento. I beni sono riconducibili ai fratelli Diego e Ignazio Agrò, rispettivamente di 68 e 76 anni, originari di Racalmuto (AG), ma da anni residenti ad Agrigento, imprenditori nel settore della produzione e della commercializzazione di olio alimentare.
I Decreti di confisca, emessi dal Tribunale-Sezione MP di Agrigento, Presidente Luisa Turco, nascono dalla proposta avanzata dal Procuratore della Repubblica di Palermo che, nell’ambito delle iniziative finalizzate all’individuazione dei patrimoni acquisiti illecitamente da soggetti ritenuti appartenenti alle consorterie mafiose, aveva condiviso le risultanze dei complessi accertamenti patrimoniali e bancari svolti dalla D.I.A. agrigentina. Le indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Dino Petralia, hanno consentito l’individuazione e la conseguente aggressione dei patrimoni illecitamente accumulati che vanno a provocare gravi alterazioni del sistema economico, se reimmessi nell’economia legale. In particolare sono stati confiscati 58 immobili, tra fabbricati e terreni, siti in provincia di Agrigento, a Giardini Naxos (ME) ed a Spoleto (PG); 12 imprese con sede ad Agrigento e provincia, a Fasano (BR) e Petilia Policastro (KR), impegnate in diversi settori economici; 56 tra rapporti bancari e postali, nonché polizze assicurative. In Spagna sono stati confiscati 6 fabbricati e 3 imprese, dedite alla produzione e compravendita di olio.
I fratelli Ignazio e Diego Agrò erano stati tratti in arresto nel luglio 2007, in esecuzione di Ordinanza di Custodia Cautelare in Carcere emessa dal GIP del Tribunale di Palermo, nell’ambito dell’indagine “Domino 2”, relativa ad una serie di episodi omicidiari, consumati all’inizio degli anni ‘90 in provincia di Agrigento, e scaturita dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, tra cui Maurizio Di Gati, già capo di cosa nostra agrigentina. Gli stessi erano stati indagati e condannati all’ergastolo (e poi assolti dalla Corte d’Appello, dopo il rinvio della Cassazione) per concorso nell’omicidio in danno dell’imprenditore Mariano Mancuso, dopo che Salvatore Fragapane, all’epoca capo del mandamento mafioso, ne aveva deliberato l’uccisione, siccome determinato nel senso dai fratelli Agrò. Il Giudice, nei provvedimenti preventivi de quo, ha evidenziato la sperequazione economica riscontrata tra i redditi dichiarati e l’attività svolta ed il valore del patrimonio dei fratelli Agrò che, seppur non “organici”, sono ritenuti contigui alla cosa nostra agrigentina.