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polizia-notte-roma-mafiadi Emiliano Federico Caruso - 20 gennaio 2015
Un’inchiesta coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma ha portato a una trentina di ordinanze di custodia cautelare nei confronti di presunti affiliati di cosche calabresi riconducibili alla ‘ndrangheta del clan Pizzata.

Le indagini della Polizia di Stato e della Guardia di finanza, che ora coinvolgono altri 400 elementi delle forze dell’ordine in Italia, hanno permesso il sequestro di armi da fuoco, di 600 kg di cocaina e hashish e persino del “Codice di san Luca”, una sorta di decalogo del perfetto “uomo d’onore” utilizzato nelle cerimonie di affiliazione mafiosa. Agli indagati sono contestati vari reati, tra estorsione, violenze, narcotraffico e l’omicidio di Vincenzo Femia, boss della ‘ndrangheta di san Luca e “ambasciatore” delle cosche calabresi.

Ma facciamo un passo indietro: è il 24 gennaio del 2013, Vincenzo Femia si trova alla guida della sua Matiz grigia all’altezza del civico 8 di viale Castelluccia di san Paolo, dalle parti di Castel di Leva a Roma. Non è certo uno stinco di santo, don Vincenzo: è figlio di Antonio Femia (ucciso nel 1994) un boss calabrese di quelli grossi, che fu narcotrafficante e, nel tempo libero, persino riciclatore di denaro sporco (derivante dalle stesse operazioni di narcotraffico) tramite varie  imprese commerciali. Don Vincenzo è inoltre il contatto capitolino della cosca Nirta-Scalzone, talmente influente e forte da essere chiamata la “Società maggiore”, e ha anche sposato Annunziatina Nirta, figlia di quel Giuseppe considerato il patriarca del potente clan (nella mafia si fa tutto in famiglia) e che verrà ucciso nella sua casa, dove si trovava ai domiciliari, il 19 marzo del 1995.

Forse è una testa calda, nonostante i 67 anni di età, forse si è lasciato prendere troppo la mano dal suo crescente potere a Roma, pensando erroneamente di poter diventare il nuovo boss del narcotraffico capitolino, fatto sta che Don Vincenzo è stato attirato lì con un pretesto, in una trappola, e viene ritrovato alle 23 dello stesso giorno ucciso da colpi di arma da fuoco. Le indagini, grazie a pedinamenti e intercettazioni telefoniche, portano all’arresto di Gianni Cretarola, una sorta di “sorvegliato speciale” che nella capitale lavora come istruttore sportivo ed già stato arrestato in passato per vari reati, tra cui l’omicidio di un 19enne una decina di anni prima (condanna poi passata in giudicato).

Considerato l’esecutore materiale dell’omicidio di Don Vincenzo, Cretarola inizia presto, come si dice in gergo, a “cantare”: vuota il sacco, fa nomi e cognomi della ‘ndrangheta, ne rivela nei dettagli la reale forza militare, i legami tra le varie cosche, parla del clan dei Pizzata e dei riti di iniziazione e fornisce anche la chiave di lettura del Codice di san Luca ritrovato dagli investigatori. Questo, in particolare, è solo uno dei codici di affiliazione mafiosa: esistono anche il codice di san Calogero, il codice di san Giorgio Morgeto, quello di Palmi e altri, leggermente diversi tra loro a causa di differenti trascrizioni orali, ma tutti riconducibili a un unico “codice d’onore”.

Ma torniamo al Cretarola: non parla a caso, la sua confessione trova numerosi riscontri e conferme nelle indagini e dopo aver chiarito, almeno in parte, l’omicidio di Vincenzo Femia, inizia quindi una seconda inchiesta. Sotto la direzione del colonnello Gerardo Mastrodomenico, il Gico (Gruppo di investigazione sulla criminalità organizzata) della Guardia di finanza riesce a penetrare in una sofisticata rete di cellulari Blackberry utilizzata dai clan per gestire il narcotraffico. Le indagini e le intercettazioni, unite alle informazioni fornite da Cretarola, permettono di individuare a Roma la presenza di almeno tre clan calabresi, gente dello spessore criminale di  Giovanni Pizzata, Bruno Crisafi, Luigi Martelli e altri.

I Crisafi-Martelli, insieme ad altri, erano in particolare molto attivi nella gestione del narcotraffico tra Colombia, Italia, Spagna, Marocco e Olanda. Ma a passarsela peggio di tutti, per l’omicidio di Don Vincenzo, sono Antonio Pizzata, suo fratello Francesco, e Massimiliano Sestito, il primo come autista, gli altri due come esecutori materiali dell’omicidio. Manca il movente, a anche questo salta fuori presto: un regolamento di conti tra cosche calabresi sul controllo dello spaccio di droga nella capitale, dovuto anche a contrasti tra i Pizzata e i Nirta.

Dalla Banda della Magliana a Mafia Capitale, Roma è ormai da decenni un luogo centrale e strategico per le cosche, utile anche per intrattenere rapporti con le mafie del nord e quelle cinesi, nigeriane, russe, albanesi, a riprova della sterminata rete di connivenze tra clan, istituzioni, politica, imprenditoria, edilizia, economia. A Roma, insomma, sembra mancare tutto, tranne la criminalità.

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