di AMDuemila - 28 ottobre 2014
A cavallo delle stragi del ’92 e ‘93 i comitati nazionali per l’ordine e la sicurezza discutevano animatamente sulla tutela dei cittadini e dei magistrati siciliani a rischio. A provarlo, scrive Repubblica, sono i verbali che documentano le riunioni dell’organismo responsabile della tutela del Paese, desecretati solo nel 2012. Nelle oltre quattrocento pagine si legge che qualcuno, di punto in bianco, decise di revocare il regime di carcere duro per trecento boss mafiosi di spicco nonostante la strategia stragista in Italia fosse tutt’altro che terminata. Durante le frequenti riunioni di quei primi anni Novanta si riunivano il ministro dell’Interno (dal giugno ’92 Nicola Mancino, oggi imputato al processi trattativa Stato-mafia per falsa testimonianza) e i capi delle forze dell’ordine e dei servizi di sicurezza.
Così dichiarava il procuratore nazionale antimafia Bruno Siclari il 16 settembre ’93: “Preoccupa molto il pericolo degli attentati, ma preoccupa anche il regime carcerario, per il rallentamento del rigore nei confronti dei detenuti”. In riferimento al depotenziamento del 41bis auspicava che “oltre a sensibilizzare i magistrati di sorveglianza, sarebbe opportuno anche un segnale del governo per delineare una linea più dura”. A pochi giorni dalla strage di via D’Amelio, il generale Tavormina, capo della Dia, proponeva di trasferire i magistrati a rischio sull’Asinara, ma Nicolò Amato, capo del Dap, replicava che sull’isola “non è stato rispettato l’impegno di inviare 50 poliziotti e 50 carabinieri” e dunque la situazione sarebbe stata ugualmente critica in termini di sicurezza. Risale al 30 luglio ’93 l’ammissione di sconfitta nelle parole di Parisi: “Dobbiamo ammettere che il dispositivo di sicurezza non ha funzionato; esiste al riguardo una responsabilità collegiale”. Sulla decisione di non prorogare il regime di carcere duro l’ex ministro della giustizia Conso aveva sempre parlato di “scelta personalissima”, ma in realtà le carte sembrerebbero dimostrare il contrario. Francesco Di Maggio, magistrato e vicedirettore del Dap, dichiarava che “l’articolo 41 bis crea molte preoccupazioni perché su 1232 provvedimenti ben 567 sono per delega del ministro della Giustizia e di questi soltanto 8 sopravvivono, mentre gli altri vengono revocati. I rimanenti 66 provvedimenti, invece, che non sono provvedimenti delegati, sopravvivono in numero maggiore: soltanto 26 vengono revocati dal magistrato” aggiungendo poi che “è opportuno che il governo mantenga ferma la sua posizione sull’articolo 41 bis”. Nessuno, di fatto, alzerà un dito in merito. Rosario Cattafi, legato a doppio filo con il clan Santapaola di Catania, racconterà poi alla Procura di Palermo di come lo stesso Di Maggio gli disse, prima di entrare a fare parte del Dap, che bisognava far cessare le stragi concedendo benefici ai boss mafiosi. Dietro i comunicati stampa diffusi per rassicurare il Paese, annunciando una inesistente linea dura adottata dal governo, si profilava l’immagine di uno Stato debole e sottoposto a ricatto dalle bombe scoppiate in Sicilia e nel continente. Ora i verbali in questione sono agli atti del processo trattativa Stato-mafia.