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crescente-lucadi Alfonso Bugea - 20 agosto 2014
Il nostro ricordo del magistrato prematuramente scomparso undici anni fa, del suo impegno nella lotta alla mafia e della sua straordinaria capacità di contagiare il desiderio di superare la forza del silenzio e dell’apatia. Guarda il Video.
Ci sono persone che ci saranno sempre, anche quando la vita inspiegabilmente si interrompe, forse perché troppo preziose o perché la loro assenza serve a dare più valore alle cose di questo mondo. Ad un certo punto è come se avessero un mandato a tempo limitato e la loro esistenza improvvisamente svanisce, in un lampo.

Solo che queste persone speciali non hanno bisogno di una vita terrena per vivere. Continuano ad esserci anche se uno non li tocca, non incrocia più il loro sguardo, non si può lasciare accarezzare dal loro sorriso. Uno non li vede ma, in fondo, è come se fossero accanto a noi. Ci tengono compagnia i pensieri, le battaglie sostenute, le difficoltà che hanno condiviso con noi, le emozioni. Ed allora, ripensando a tutto questo, capisci che loro non ci hanno mai lasciato.

Luca Crescente è morto 11 anni fa, ma io l’ho incontrato la settimana scorsa, ed il giorno dopo per strada, in piazza, al mercato, in redazione dove trascorro almeno dieci ore della mia giornata. Lo incontro ancora, nonostante tutto, perché nel mio lavoro ha segnato una svolta. E da allora, da quando scoccò questa scintilla, è stato un continuo vivere la stessa tensione, lo stesso desiderio di lasciare questo mondo un po’ meglio di come lo abbiamo trovato.

Io lo conobbi per caso. Non avevo mai fatto cronaca giudiziaria, ma nel 1999 mi ritrovai a seguire la scia lasciata dalle due operazioni antimafia denominate Akragas. Oltre cinquanta erano gli imputati e quasi tutti di Porto Empedocle, il mio paese. E questo costituiva per me, empedoclino, un limite ma anche una forza. Un limite perché non è facile varcare la soglia di un’ aula bunker e restare impassibili agli sguardi inquieti degli imputati seduti dietro le sbarre e le celle. Sguardi che avevi già visto anni prima per le strade del quartiere e nei campi di calcio perché quelli erano i tuoi compaesani, i coetanei, i compagni di mille giochi d’infanzia. Ed allora ti senti stringere il cuore, provi difficoltà ma anche imbarazzo perché molti di loro credono che per il solo fatto di conoscerti sei dalla loro parte e possono – insomma – contare su di te e sulla tua disponibilità a prescindere dal fatto che abbiano torto o ragione.

Ma tutto questo intreccio di limiti e conoscenze finisce col trasformarsi anche in una forza perché ad un certo punto, nonostante tutto, ti prende la voglia di raccontare le vicende di una generazione degenere che ha scritto la storia criminale del tuo paese. Ed allora tra l’incudine e il martello varcai la soglia del carcere di contrada Petrusa dove si tenevano le udienze. Iniziò così la mia carriera di cronista di giudiziaria. L’aula bunker era sempre affollata di imputati e parenti. Io ero l’unico giornalista che seguiva costantemente il processo, seduto in uno sgabello sgangherato in quella che definiscono sala stampa ma che in realtà è un soppalco polveroso e sporco dove non ci va quasi mai nessuno. E, visto che nessuno ne faceva uso, forse per questo l’amplificazione non sempre funzionava.

Così, come accade nei film comici,  capitava che nel momento più delicato dell’interrogatorio andava via l’audio e non capivi più nulla. Il rischio era di far passare una giornata a vuoto per non essere riuscito a carpire le parole del pm di turno o dell’imputato o del testimone interrogato. Non c’era altra scelta se non quella di chiedere informazioni ai diretti interessati. Ma con gli imputati non potevi parlare e gli avvocati, invece, sempre disponibili  spesso rasentavano la faziosità. Restava aperta la terza possibilità, chiedere di parlare con i magistrati. Ma questo inizialmente cercai di evitarlo. Me lo consigliava la mia piccola esperienza e il trauma che aveva lasciato il rapporto turbolento e pericoloso con gli uomini della Procura di Agrigento di allora. Era accaduto che su Agrigento era calata una nebbia di veleni e tensioni che aveva reso la vita ancor più invivibile. Un velo era calato sulla città che aveva smarrito la nitidezza delle cose, se nitide lo erano mai state.  E le visioni appannate avevano finito col rendere più difficili i rapporti personali, figurarsi quelli di lavoro. La parola d’ordine era diffidenza. Fu con quest’animo che chiesi di parlare con i sostituti che svolgevano la pubblica accusa e che avevo avuto modo di vedere all’opera durante le conferenze stampa che  illustravano gli esiti delle operazioni Akragas: visti, ma non avevo mai parlato con loro. Non una parola, non un cenno e neanche una stretta di mano.  E più mi incamminavo verso la loro postazione più cresceva dentro di me il convincimento di andare incontro a una ulteriore delusione. Del resto – pensavo – se i giovani sostituti di Agrigento ti trattano con un aspro distacco figurati che faranno quelli della Dda di Palermo che non sono certo gli ultimi arrivati. Il primo contatto fu con Ambrogio Cartosio, poi all’incontro si aggregò Luca Crescente. Uscii indenne dalla conversazione, anzi fui io ad interromperla bruscamente perché volevo essere sicuro che loro avevano capito bene che ero un giornalista del Giornale di Sicilia.

Bastarono pochi giorni per scoprire che avevano compreso bene e che avevano letto i resoconti giudiziari. Erano meravigliati anche loro, perché fino a quel momento attorno al processo avevano colto ostilità e silenzio. Meraviglia su meraviglia.

Ma la più grande fu la mia: restai sorpreso da quella inusuale disponibilità.

“Posso avere il suo numero di telefono?”, chiesi a Luca Crescente. La risposta fu positiva e fu lui stesso a scriverlo su un foglio. “Chiami tutte le volte che ne sente il bisogno”. Volli provare. Trovai una scusa. Composi il numero e rispose una voce di donna, la segretaria: “Il dottore è occupato, non può rispondere”. Credetti fosse una delle solite scuse. Un modo per tenere alla larga gli scocciatori. Ed invece Luca Crescente era davvero impegnato e quando potè fu lui stesso a chiamarmi scusandosi dell’imprevisto.

Da quel giorno i contatti furono sempre più cordiali, professionali, corretti e soprattutto frequenti. Fino al punto da riuscire a parlare anche di argomenti che nulla avevano a che vedere con la giustizia e la mafia. E gli argomenti spaziavano dalla sua provenienza di Castelvetrano, al desiderio di acquistare una Lancia Kappa (era appena uscita fuori dalla produzione, dunque costava meno), dai figli, alla voglia di scrivere un libro.

Discussioni, forse, banali. Scene di un normale rapporto di lavoro. Ma visti i precedenti quelle scarne attenzioni erano la giusta ricompensa dopo le amarezze. Era la normalità che riprendeva il suo posto, i ruoli che tornavano ad essere nitidi. Era il modo per non sentirsi soli, di contagiare la voglia di fare e di fare della lotta alla mafia un patrimonio comune, un bene collettivo e non una battaglia per pochi intimi.

Il mio mestiere, insomma, aveva ripreso dignità, il suo valore. Ma quel che fu ancor più importante cominciai a comprendere meglio anche il senso della mia professione. Anch’io potevo fare qualcosa per la mia terra, non grandi cose, né gesta epiche o sforzi fuori dal comune. No, bastava lavorare normalmente e senza personalismi. E le notizie non andavano più elemosinate, ma verificate con scrupolo potendo finalmente contare anche sulla disponibilità dei diretti interessati, dunque di tutte le parti protagoniste del processo. Alla luce del sole.

Iniziai a raccontare la cronaca di tante udienze che altrimenti sarebbero passate inosservate, come se non si fossero mai tenute e come se mai fosse stata avviata un’imponente opera di risanamento sociale senza precedenti. Mi ero ritrovato ad avere un ruolo in questa operazione dal valore giudiziario, ma soprattutto sociale. Un ruolo che nessuno mi aveva attribuito e dato perché era il mio,  e finalmente potevo svolgere nel modo migliore senza equivoci, reticenze, paure e riserve.

Per questo non potrò mai dimenticare Luca Crescente e la sua straordinaria capacità di contagiare il desiderio di fare e di superare la forza del silenzio e dell’apatia.

Non l’ho dimenticato allora, negli anni faticosi del lungo dibattimento processuale. Continuo a ricordarlo ancor oggi: pur non essendo nelle aule giudiziarie è ancora un riferimento fedele, con i suoi pensieri sui percorsi della normalità responsabile. Ed ogni giorno rimbomba nelle orecchie quel desiderio di lasciare il mondo un po’ meglio di come lo abbiamo trovato.

Tratto da: malgradotuttoweb.it

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