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rostagno-mauro-web3di Rino Giacalone - 12 aprile 2014
La prima parte della requisitoria del pm Gaetano Paci nel processo per l’omicidio di Mauro Rostagno. Le responsabilità di Cosa nostra e i pregiudizi di chi indagò sull’assassinio
Il pubblico ministero della Dda di Palermo Gaetano Paci all’avvio del suo intervento in Corte di Assise, per la requisitoria nel processo per il delitto del sociologo e giornalista Mauro Rostagno, ha voluto subito rendere omaggio alla figura dell’ucciso. "Questo processo ha restituito lo splendore della figura umana e intellettuale di Rostagno. In questi anni ogni aspetto pubblico e privato della sua vita è stato scandagliato e ne è venuta fuori una personalità controcorrente, poliedrica, capace di scelte radicali in nome di forti tensioni morali".

Altro che omicidio per “corna”, vendette meschine, altro che rivalsa di un pugno di spacciatori o ancora per coprire le magagne contabili della comunità. Ammazzato dalla mafia seguendo prima, durante e dopo, le metodologie mafiose: gli avvertimenti, i segnali di fastidio, le modalità del delitto, il mascariamento della vittima seguito successivamente, per quasi 26 anni. La “firma” della mafia sta tutta in queste poche righe. Solo chi non ha voluto vedere non ha visto. Anche tra i giornalisti, che fino a pochi giorni addietro hanno ancora scritto facendo intendere che la pista mafiosa è la panacea per tutti i mali di questa terra. “Dimostrerò – ha commentato il pm Paci – che avere individuato la mafia quale mandante ed esecutrice del delitto non è stata la pista più comoda e facile da battere. Non è stata comodità ma si sono messe in fila una serie di prove, e lo abbiamo fatto processando in questo processo anche chi ha condotto le indagini, inquirenti e investigatori”.

“Oggi è una giornata storica per la vicenda del sociologo Mauro Rostagno". Ha iniziato così il pm Gaetano Paci. Seduti al suo fianco c’erano l’altro pm Francesco Del Bene e il Procuratore aggiunto Teresa Principato. Dietro di loro le parti civili. Assenti Chicca Roveri e Maddalena Rostagno, la compagna e la figlia di Mauro, stavolta nessun assente tra i banchi dei legali di parte civile, schierato lo stato maggiore di Libera costituita parte civile con l’avv. Enza Rando e Domenico Grassa, c’erano Enrico Fontana, Davide Pati, dell’ufficio nazionale di presidenza, il coordinatore regionale Umberto Di Maggio, la referente del presidio di Trapani Gisella Mammo Zagarella. Tra i banchi della stampa Adriano Sofri, con un blocchetto rosso tra le mani, nuovo di zecca, che presto ha cominciato a riempire di appunti su quello che il pm andava dicendo. Ha disertato l’udienza il presunto sicario di Mauro Rostagno, Vito Mazzara, la prima assenza dopo 67 udienze e tre anni di processo. Il capo mafia di Trapani Vincenzo Virga è rimasto collegato ma per un paio di ore in video conferenza dal carcere Opera di Milano (dove nel frattempo è stato trasferito da quello di Parma, anche lui tra i trasferiti del 41 bis), poi anche lui ha rinunciato. Assenze che offrono una precisa lettura, la sfrontatezza e arroganza della mafia contro la magistratura inquirente.

La parte iniziale della requisitoria il pm Paci l’ha utilizzata a descrivere la “esemplare” figura di Mauro Rostagno. Esemplare termine che nessun magistrato prima di lui aveva mai rivolto a Rostagno. Anzi altri andavano dicendo che la sua era una vita da mille risvolti che le casuali dell’omicidio potevano essere tante. Bastava essere più attenti, e rendersi conto che quella esemplarità dava fastidio alla mafia in quel 1988, mentre Cosa nostra cambiava pelle, diventava impresa, si toglieva le “spine” interne ed esterne alla organizzazione, rendeva favore ai politici che non ne potevano più di quel giornalista con la barba e vestito di bianco che ogni giorno alle 14 con i suoi interventi giornalistici a Rtc, televisione privata della città, catalizzava l’attenzione di quasi tutta la città. Per il pm Gaetano Paci quella poliedricità di Mauro Rostagno era qualcosa di positivo, qualcosa di troppo positivo che la mafia non poteva oltre sopportare.. E un giorno passeggiando tra gli alberi di un agrumeto a Castelvetrano, tra i profumi più belli della nostra terra, il patriarca della mafia belicina, il padrino don Ciccio Messina Denaro, ordinò per questo il delitto di Mauro Rostagno, “uno che era diventato una camurria” come è venuto a raccontare in aula il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori. “Uno che raccontava minchiate” come lo apostrofò da un’aula di Tribunale il boss di Mazara, don Mariano Agate. Don Ciccio e don Mariano sono morti, condannati al carcere a vita per delitti e stragi, hanno però evitato questo processo, Aiutati da quelle indagini che per anni hanno lasciato fuori dalla mafia dall’inchiesta. Aiutati da depistaggi? "Abbiamo in qualche modo processato anche le indagini fatte negli anni scorsi", ha aggiunto il pm che ha denunciato "le sottovalutazioni inspiegabili, le omissioni, le miopie e anche gli orientamenti di pensiero adesivi a cosa nostra.. non si può prescindere dall'attività giornalistica di Rostagno" nel ricercare il movente del delitto. "Senza alcuna ironia - ha aggiunto il pm - solo il comandante del reparto operativo dei carabinieri di Trapani dell'epoca, generale Nazareno Montanti, non si era accorto dell'impatto mediatico dei suoi interventi televisivi".

L'atto di accusa è pesante. E' rivolto dal pm Paci ai carabinieri ma non solo che si occuparono del delitto di Mauro Rostagno. Un intervento che proponiamo partendo dalla fine: "O ammettono che non hanno saputo fare il loro mestiere o c'è dell'altro". L'indice è puntato contro l'ex comandante del reparto operativo, il generale Montanti e dell'allora brigadiere oggi maresciallo Beniamino Cannas. Paci ha stigmatizzato le indagini dei carabinieri, quasi che a tutti i costi si doveva escludere la pista mafiosa. "Addirittura in un primo rapporto, quello del novembre 1988, i carabinieri scrivono che nonostante la sbandierata (sic!) pista mafiosa da parte della stampa non si sono trovati riscontri...il fatto che il fucile è esploso porta a escludere che si tratti di professionisti". Il generale Montanti sintetizzerà in aula la circostanza dicendo che per loro con grande evidenza si trattava di un delitto alla carlona e quindi non poteva essere stata la mafia a sparare. Montanti aggiungerà che per la poliedrica figura del Rostagno le indagini non presero mai la pista mafiosa. "Ma c'è anche altro che non fecero i carabinieri - ha aggiunto Paci - caso più unico che raro per il delitto Rostagno non furono attivate intercettazioni se non a quasi un anno da delitto...quando di solito a poche ore da un delitto la magistratura è solita indagare ricorrendo alle intercettazioni...a un anno di distanza quelle intercettazioni servirono solo a fare scoprire le malversazioni dentro la Saman, nessun elemento utile alle indagini sul delitto". L'elenco delle cose non fatte comprende diverse cose. Anche la mancata trasmissione all'autorità giudiziaria di due verbali sottoscritti da Rostagno che era stato sentito a proposito delle indagini sulla loggia massonica Iside 2. A questo punto Paci ha ricordato cosa era quella loggia. "Una loggia dove erano scritti mafiosi, politici, nelle agende furono trovati appunti e indicazioni da ricondurre anche a giudici e magistrati, come il dott. Lombardo e il dott. Palmeri, una loggia che arrivava dunque fin dentro le stanze delle istituzioni e Rostagno se ne stava occupando, solo che quei verbali per anni sono rimasti non considerati, dimenticati, sepolti, se non emergere adesso nel corso del dibattimento". "Siamo stati dinanzi a comportamenti di investigatori dei carabinieri ma anche da parte di inquirenti colmi di pregiudizi uniti a miopia insufficienze e sottovalutazioni di chi ha operato nell'immediatezza del crimine. "Comportamenti e condotte anche sono arrivati fin dentro il palazzo di giustizia, condotta che hanno penalizzato indagini e hanno impedito di collocare delitto nel contesto della Trapani dell'epoca, è stato gravissimo il danno arrecato alle indagini". Per il pm Paci è clamoroso poi che il maresciallo Cannas sentito nel processo (il suo ex comandante lo aveva indicato come punta di diamante del reparto) abbia detto che lui si occupava di droga e però clamorosamente c'era lui sulla scena del delitto". A seguire il pm Paci si è soffermato invece sul rapporto di Polizia che nel 1988 indicò subito la pista mafiosa. Fu firmato dall’allora capo della Mobile, Rino Germanà. "Siamo dinanzi ad  lettura tecnica e asettica del fatto omicidiario, chi scrisse quel rapporto dimostrò di avere profonda conoscenza del territorio, d'altra parte la firma in calce a quel rapporto era quello di un poliziotto che ancora oggi  rappresentata da una delle migliori espressioni a livello nazionale della Polizia, l'odierno questore di Piacenza Rino Germanà”.

Alla requisitoria, che continuerà lunedì e mercoledì prossimi, si è arrivati a tre anni dall’avvio del processo, 67 udienze, 144 testi sentiti e 4 perizie eseguite. Esposte sono stati i contenuti delle testimonianze delle testimoni oculari, Monica Serra che accompagnava Mauro in auto, le sorelle Fonte che si videro passare davanti l’auto di Rostagno seguita da un’altra auto, loro ascoltarono i colpi di arma da fuoco e videro presto l’auto che inseguiva Rostagno tornare indietro, mentre erano ferme all’incrocio della stradina per Lenzi. Ha quasi letto per intero in aula la testimonianza di Chicca Roveri, che raccontò ai giudici, interrogata al processo, di avere sentito degli spari, di aver pensato a dei cacciatori e di essere scesa in strada, davanti alla sede della comunità Saman, solo dopo avere udito delle grida. La Roveri vide allora l'auto con dentro il corpo del compagno. Si sedette sulle sue ginocchia. Gli sfilò la fede e gli disse: "Ora sei solo". Solo dopo mesi, e in una circostanza molto singolare, la donna fu sentita dall'allora procuratore di Trapani Coci. Il magistrato le disse di non parlare del loro incontro e le rivelò che gli inquirenti temevano già tempo prima per la vita di Rostagno. Ai giudici, poi, la Roveri disse quali erano i filoni sui quali Rostagno stava concentrando il suo lavoro giornalistico: traffici di droga, connubio tra mafia massoneria e pubblica amministrazione e il processo al capomafia Mariano Agate. Conoscenze che lei per tempo non potè mettere a conoscenza di chi indagava perché prima non fu sentita poi ricevette l’invito del procuratore Coci a “non parlare”. Anni dopo finì in carcere, accusata di avere favorito gli assassini del marito, quando l’ipotesi era quello di un delitto maturato dentro la comunità Saman. Una indagine finita archiviata e anche l’elenco delle inadempienze investigative è risultato essere lungo, anche un verbale che in aula una teste ha detto di disconoscere. "Coci mi disse che era un incontro riservato perchè poteva essere pericoloso per tutti e due...Coci mi chiese se avevamo mai pensato che Mauro era in pericolo io risposi di no lui mi disse noi lo sapevamo ma non lo dica".

Quella sera a Lenzi. La testimonianza di Monica Serra. "A un certo punto ho visto i vetri che volavano, ho visto che Mauro era ferito, non capii subito cosa era successo...chiedo a Mauro tutto bene? Si, la risposta, non ti preoccupare...stai giù e io mi sono calata giù...pensavo stupidamente che saremmo tornati in tv e avrebbe fatto uno scoop...invece ho sentito altri colpi...poi ha sentito una macchina che andava via...sono scesa dall'auto e sono corsa in comunità poco distante per dare l'allarme". La Serra ha detto di avere sentito una sequenza di colpi, vede i vetri posteriori arrivare davanti...conferma che si è cominciato a sparare da dietro..."Mauro aveva una macchia rossa sulla spalla, la spalla destra". “Già questo bastava a riconoscere che si trattava di un delitto di mafia”. E invece a Chicca Roveri toccò sentire un carabiniere che parlando alla radio diceva…”c’è stato un incidente” e poi all’obitorio un altro carabiniere che diceva ai giornalisti che nella borsa di Rostagno erano stati trovati “droga e dollari”. Bugie. “Nei delitti di mafia i primi colpi vengono esplosi a distanza per fermare la vittima, poi i colpi a distanza ravvicinata, questo è accaduto anche per uccidere Rostagno. A parte il fatto che l'auto usata dai sicari e trovata bruciata in luogo poco distante dal delitto risultò rubata nel marzo del 1988, cosa questa che solo una organizzazione criminale può permettersi. Eppure a causa di errori metodologici – ha evidenziato Paci - tutte queste circostanze sono rimaste non considerate. Gli investigatori dei carabinieri presero quell'elemento del fucile scoppiato, sulla scena del crimine furono trovati i pezzi della canna (dove poi la perizia del Dna ha trovato le tracce genetiche del killer Mazzara) per dire che non poteva essere un delitto di mafia, come se la mafia non compie errori”. Addirittura si discusse sulla impossibilità che la mafia avesse lasciato in vita una testimone, Monica Serra. “La mafia che non compie errori è la stessa che per fortuna non è riuscita a uccidere il vice questore Germanà a Mazara nel 1992 per non avere saputo usare un kalanshikof. La mafia che lascia viva i testimoni è la stessa che il 23 dicembre 1995 uccise l’agente Giuseppe Montalto lasciando indenne la moglie che sedeva affianco sulla loro auto. E a sparare quella sera a Montalto fu proprio Vito Mazzara.

“U sintisti che successe ai picciotti”. E’ una parte di un colloquio tra mafiosi ripetuto ai magistrati dal pentito Ciccio Milazzo. “Parlavano di quel fucile scoppiato e in aula ce lo ha confermato Milazzo” ha rimarcato il pm Paci. I collaboratori di giustizia hanno spiegato in aula l’astio contro Mauro Rostagno. Brusca in Corte di Assise venne a dire che quando Riina sentì in tv la notizia del delitto non si mostrò sorpreso, commentò dicendo che “aviano fatto bono…bono ficiro”.

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