di Emiliano Federico Caruso - 15 novembre 2013
Il Tribunale di Roma, su richiesta della Dda (Direzione distrettuale antimafia) e in seguito a indagini di carabinieri e Guardia di finanza, ha emesso un decreto di sequestro preventivo nei confronti di Ernesto Diotallevi (foto). Avvenuto grazie alla legge Rognoni-la Torre/416-bis, che prevede la confisca dei beni in caso di associazione a delinquere di tipo mafioso, il sequestro riguarda 25mln di euro in beni, tra cui un complesso turistico a Olbia (in Sardegna, patria di molti investimenti immobiliari della criminalità organizzata), un appartamento di pregio in piazza Fontana di Trevi, altri 42 immobili distribuiti tra Sardegna, Gradara e Roma, quote societarie, conti correnti, automobili di lusso, moto, patrimoni aziendali di sette società attive nel campo immobiliare, gestionale, energetico, dei trasporti marittimi, e di una società titolare di una villa in Corsica. Le intestazioni dei beni erano state distribuite da Diotallevi tra i suoi figli Leonardo e Mario, la moglie Carolina Lucarini, e tra vari prestanome e società, tra cui la Sepefi e la Gestimm, entrambe s.r.l. di Roma, e la C. Immobiliare di Rimini, tutte di proprietà di Alessandro Floris e Roberto Ciotti.
Le indagini patrimoniali che hanno portato al sequestro, nell'ambito dell'operazione trent'anni (che ha indagato sulle attività di Diotallevi tra gli anni 1981-2013) rappresentano la fine di una carriera criminale iniziata nei primi anni '80. Già pezzo grosso della Banda della Magliana e tramite tra alcuni imprenditori (tra i quali Francesco Pazienza e Flavio Carboni) e la criminalità organizzata, Ernesto Diotallevi era anche considerato il contatto ideale tra la Banda e Cosa Nostra grazie ai suoi stretti rapporti con Giuseppe "Pippo" Calò, capomandamento di Porta Nuova insediatosi a Roma nei primi anni '70 sotto il falso nome di Mario Aglialoro allo scopo di aumentare l'influenza di Cosa Nostra nella Capitale. Considerato il tesoriere della mafia, Pippo Calò riuscì a organizzare una fitta rete di relazioni tra istituzioni, criminalità organizzata e, tramite lo stesso Diotallevi, con la banda della Magliana. Calò venne poi accusato e assolto per l'omicidio, mai chiarito, di un altro personaggio in stretti rapporti con la Banda: quel Roberto Calvi presidente del Banco Ambrosiano, uno degli uomini più potenti dell'Italia anni '70, e accusato dai vertici di Cosa Nostra di aver male amministrato le finanze della mafia. Pippo Calò, ormai in carcere dal 1985 per la strage del rapido 904 (fu uno dei primi a essere sottoposto al regime carcerario 41-bis, a da allora venne condannato a vari altri ergastoli), venne poi accusato, e sempre assolto, per il tentato omicidio del 1982 di Roberto Rosone, direttore generale e vicepresidente dell'Ambrosiano, attentato durante il quale perse la vita Danilo Abbruciati (sul corpo del quale viene trovata una scatolina di fiammiferi con annotato il numero di telefono di Diotallevi), altro nome importante della Banda della Magliana che iniziò la sua carriera criminale nella batteria dei testaccini. Nonostante un simile curriculum criminale, Ernesto Diotallevi è finora passato indenne attraverso vari processi: venne assolto dalla Corte d'assise nel 1996 durante il famoso processo alla Banda della Magliana, nel 1998 venne accusato come mandante dell'omicidio dell'usuraio Domenico "Memmo" Balducci, processo in cui rischiò l'ergastolo ma venne considerato all'oscuro di un' operazione per la quale furono accusati Enrico de Pedis, Danilo Abbruciati e Raffaele "Palletta" Pernasetti, che agirono dietro mandamento di Pippo Calò. Nel 2007 venne assolto dall'accusa dell'omicidio Calvi (insime a Calò e Carboni), anche se fu lui a consegnare al banchiere un falso passaporto, a nome Gianroberto Calvini, che lo accompagnò nell'ultimo viaggio a Londra, dove venne trovato impiccato sotto il Ponte dei frati neri. Negli ultimi tempi, forte dell'esperienza accumulata in 30 anni di carriera criminale, prima con la banda della Magliana e poi con i più alti vertici di Cosa Nostra, Diotallevi controllava ormai buona parte delle attività economiche della Capitale, ultimo capitolo (si spera) di una potentissima realtà criminale iniziata negli anni '70 nei quartieri romani della Magliana, di Testaccio e dell'Alberone.