di Piero Melati - Il Venerdì
Documenti inediti e un libro inchiesta fanno nuova luce su una delle più misteriose vicende della mafia, tra gli omicidi di Falcone e Borsellino si scopre la pista per arrivare all'anonimo «sussurratore».
Palermo. Si apre una finestra sul buio di quella sagrestia della chiesa di San Giuseppe Jato, dove secondo il Corvo si sarebbe consumata la prima resa dello Stato alla mafia. Qui, ai piedi del monte, nel cuore di un paesino di ottomila anime, tra vigneti e terre argillose, in un imprecisato giorno tra il gennaio e il febbraio del 1992, un ministro in carica, importante esponente della Democrazia cristiana (partito di maggioranza relativa della Prima Repubblica) avrebbe incontrato in segreto il boss Totò Riina. La sentenza del maxiprocesso di Palermo contro Cosa Nostra era stata appena confermata in Cassazione. Per la prima volta i padrini erano stati stangati dagli ergastoli. E ora giuravano vendetta, anzitutto contro i loro «protettori», che li avevano male consigliati. Il 12 marzo di quell'anno cadrà, a due passi dalla spiaggia di Mondello, Salvo Lima, il reggente di Giulio Andreotti in Sicilia. Giovanni Falcone non usò mezzi termini, commentando l'omicidio: «D'ora in poi saranno cazzi amari».
E infatti. La sequenza di vendette culminerà con le stragi di Capaci e via D'Amelio e con gli attentati nel Continente del '93. Il presidente Ciampi confesserà di aver temuto un golpe. Anche perché, nel frattempo, la Prima Repubblica diventava Tangentopoli e crollava a Milano, sotto i colpi del pool Mani Pulite. L'Italia era terra di nessuno. Questo il contesto. Ma secondo il Corvo, quando l'esponente della Dc incontrò Riina, tra acquasantiere, paramenti sacri e antichi crocifissi, l'omicidio Lima non era stato neppure concepito. E non era ancora iniziata la trattativa raccontata da Massimo Ciancimino, che suo padre Vito, ex sindaco di Palermo e mafioso di Corleone, avrebbe condotto con Bernardo Provenzano (la cosiddetta ala moderata della mafia), su richiesta dei Ros dei carabinieri, e che avrebbe portato all'arresto di Riina (l'ala terrorista) nel gennaio '93. Un anno prima siamo qui, nella penombra della sagrestia di San Giuseppe Jato, dentro l'incubazione di ogni futura trattativa.
Perché tornano alla ribalta le otto cartelle attribuite al Corvo di Palermo, spedite dopo l'omicidio Lima a 39 magistrati, politici, giornalisti? Ma soprattutto, inviate a Paolo Borsellino prima di via D'Amelio. Oggi si è scoperto che Borsellino, dopo la morte di Falcone, e prima di cadere anche lui, era titolare dall'8 luglio del '92 (undici giorni prima del massacro del 19 luglio) di una inchiesta ufficiale della Procura di Palermo su quel dattiloscritto, insieme al procuratore aggiunto Vittorio Aliquò. E oggi sappiamo che Borsellino prese molto sul serio quello scritto. La circostanza è agli atti della nuova inchiesta della procura di Caltanissetta su via D'Amelio, chiamata a fare luce anche sul depistaggio e sul primo, finto processo. Oggi sappiamo che, per ben due volte, prima e dopo la morte di Borsellino, il generale comandante dei Ros, Antonio Subranni, richiesto di attivarsi per individuare l'anonimo estensore dello scritto, diede parere contrario ad ogni accertamento. Oggi sappiamo anche (grazie alla testimonianza della moglie Agnese) che, il 17 luglio del '92, poco prima di morire, Borsellino disse di avere scoperto che «il generale era punciuto ». Infine, oggi sappiamo, dalla deposizione processuale del maresciallo Carmelo Canale, che quel ministro ed esponente dc che avrebbe incontrato Riina a San Giuseppe Jato, citato nella lettera del Corvo, sarebbe stato Calogero Mannino.
Cinque volte deputato, più volte sottosegretario e ministro, nominato commissario della Dc siciliana da Ciriaco de Mita, rieletto nel 2008 nell'Udc, Mannino verrà prosciolto dalle accuse di concorso esterno in associazione mafiosa dopo un iter processuale tra i più sofferti della storia giudiziaria. Oggi è alla sbarra nel processo di Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia, insieme all'ex ministro Nicola Mancino, ai vertici dei Ros, ai boss di Cosa Nostra. Ma che siano stati o meno veleni contro di lui, quelli spurgati dalla lettera del Corvo, l'aspetto che sconcerta è un altro. La Procura di Caltanisetta è a due passi dal dare un volto al Corvo. Questi sarebbe un politico. E il suo scritto la dice lunga su una guerra di ricatti che si svolge da anni nel cuore dello Stato, usando sempre e senza scrupoli la mafia come sponda.
Oggi ci sono nuovi spunti. Una giornalista freelance, Raffaella Fanelli, firma per l'editore Anordest Intervista a Cosa Nostra, inchiesta che va in questa direzione. L'indagine, durata anni, cerca di sopperire all'assenza di documenti decisivi, non a caso spariti in circostanze misteriose: l'agenda di Borsellino, l'archivio di Riina, i file di Falcone al ministero della Giustizia. Fanelli mette insieme verbali inediti, documenti firmati da Falcone, interviste a protagonisti (i figli di Riina e Provenzano, Bruno Contrada, Vito Palizzolo, il pentito Gaspare Mutolo) per chiarire il puzzle più difficile della storia d'Italia.
Chi è il Corvo? Borsellino aveva una certezza: svelarne l'identità sarebbe servito a chiarire la morte di Falcone. Fu grazie al Corvo che Borsellino intuì, per la prima volta, l¿esistenza di una «trattativa». Ma non ebbe il tempo di scavare. Dopo la sua morte, sul caso del Corvo, prevalsero veleni e illazioni. Solo ora (22 anni dopo) si apprende che il giudice voleva andare fino in fondo. Perché sarebbe entrato nel regno di quelle «menti raffinatissime» già indicate da Falcone.
Il pentito Giovanni Brusca (che premette il bottone del telecomando per la strage di Capaci) disse che il Corvo era un ex vicesindaco di Palermo. Ma non fece nomi. Undici anni dopo le sue affermazioni, nel covo del boss di Altofonte Mimmo Raccuglia, venne trovata una foto di Rino Lo Nigro, 54 anni, dirigente della Dc, ex vicesindaco di Altofonte. Nelle file dello scudocrociato era stato eletto alla Provincia e poi, nel '90, era stato assessore nella giunta Lo Vasco, a Palermo. In seguito era diventato il vicesindaco dell'esecutivo cittadino guidato dall'ex magistrato Aldo Rizzo, indipendente di sinistra eletto nelle file del Pci. Nel suo curriculum, prima di diventare un superburocrate della Regione, una collaborazione con l'ex sottosegretario agli Interni, Ferdinando Russo e, infine, l'avvicinamento all'Udc.
Nel processo Andreotti, nel 1998, Giovanni Brusca lo annovera tra le amicizie del fratello Emanuele: «Tramite Lo Nigro, mio fratello aveva appreso che il giudice Corrado Carnevale non avrebbe più presieduto il maxiprocesso in Cassazione». Ma Lo Nigro ha sempre respinto ogni accusa: «Non ho mai fornito notizie riservate a nessuno, non ho mai scritto lettere anonime». Il suo nome era tornato nell'inchiesta sulle talpe alla Dda di Palermo. Fra le conversazioni intercettate nel salotto del medico Giuseppe Guttadauro, boss di Brancaccio, Salvatore Aragona (un altro medico vicino al boss) diceva: «Lo Nigro è uomo del Sisde». Infine, è citato anche nelle carte con le quali i magistrati hanno chiesto il rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa per l'ex governatore siciliano Totò Cuffaro. Un testimone, Gaspare Romano, ha raccontato di aver visto Cuffaro, a Portella della Ginestra, con Santino Di Matteo (il primo pentito dell'eccidio di Falcone, la cui collaborazione costerà il rapimento e l'atroce delitto del figlio, il piccolo Giuseppe), Emanuele Brusca e Rino Lo Nigro.
Ma cosa scriveva il Corvo? Che, nella sagrestia di San Giuseppe Jato, il ministro avrebbe chiesto a Riina di far tornare alla Dc i voti che, nelle politiche dell'87 e alle regionali del '91, la mafia aveva fatto confluire sui socialisti, ritenuti più «garantisti». In cambio, veniva offerto a Riina un «papello» che prevedeva: la prospettiva per i latitanti di «regolarizzare la loro posizione», la garanzia di riprendere il controllo delle loro ricchezze, la possibilità di inserirsi con proprie imprese nei grandi appalti in Sicilia. Ma Riina non si fidava, scrisse il Corvo. Salvo Lima, spiegò il boss, si era già impegnato in tal senso, grazie ai contatti presi con la società Tor di Valle, ma un'indagine dei carabinieri aveva portato all'arresto del responsabile dell'impresa. Allora il dc avrebbe spiegato, secondo il Corvo, che questo c'era da aspettarselo, perché Lima e Andreotti erano ormai «bruciati», e per questo si parlava di loro in quel rapporto dei carabinieri. La soluzione passava, pertanto, dalla scomparsa di Lima. «Non c'è problema » affermò Riina secondo il Corvo.
Il «papello» di San Giuseppe Jato narrato dal Corvo prevedeva immunità per i pentiti (finto o veri che fossero) che avrebbero aiutato lo Stato a «sconfiggere» la mafia. Successivamente, Riina e i boss latitanti si sarebbero fatti arrestare. In quegli anni, va ricordato, ci furono effettivamente ambienti politici che lanciarono l'idea della «dissociazione» senza pentimento da parte dei boss. Una sorta di «indulto». E la lettera del Corvo ricorda quanto, all'ombra delle stragi, certa politica giocò spericolate partite usando Cosa Nostra. A conferma indiretta, nel libroinchiesta di Fanelli, ci sono le interviste a Salvuccio Riina e Angelo Provenzano, rispettivamente figli dei boss Totò e Bernardo. Il primo, a proposito di una trattativa precedente alla morte di Salvo Lima, dice: «Lo chieda al Corvo, l'autore dell'anonimo inviato a politici e magistrati. Io non so nulla di interlocutori occulti. Ma mio padre, il giorno del suo arresto, prima di uscire, tornò indietro in cucina, per dare un bacio a mamma». E Angelo aggiunge: «Portella della Ginestra...quello stesso copione, recitato così bene una volta, può avere avuto altre repliche».
Fonte: Il Venerdì - 20/09/2013
Tratto da: ilmiolibro.kataweb.it