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tribunale-trapani-c-vliparidi AMDuemila - 21 settembre 2013
Nuove intimidazioni scuotono la procura di Trapani, dove una decina di giorni fa un carabiniere ha trovato una microspia al Palazzo di Giustizia. Si tratta dell’ennesimo tentativo di creare un clima di tensione in una Procura che Sonia Alfano, presidente della Commissione antimafia del Parlamento europeo, ha definito con preoccupazione durante la sua visita agli uffici giudiziari del 9 novembre “una delle più esposte”.
La cimice si trovava accanto alla porta sul retro, un ingresso riservato solo al passaggio del procuratore e degli altri magistrati, per motivi di sicurezza personale. Lo spazio circostante è sorvegliato da telecamere, che però registrano immagini a circuito chiuso e le riprese, dopo un periodo di tempo, vengono coperte da quelle più recenti. Il piccolo dispositivo è risultato essere non funzionante: non sono stati ritrovati infatti i circuiti che avrebbero permesso l’ascolto delle conversazioni. Per questo si ipotizza che possa trattarsi di un gesto dimostrativo.

Non è la prima volta che la Procura di Trapani è oggetto di atti intimidatori mirati ad ostacolare il lavoro di magistrati che indagano su alcune delle più delicate inchieste antimafia, come quella che vede il senatore D’Alì – del cui processo si occupa il sostituto procuratore Andrea Tarondo – accusato di aver intrattenuto rapporti diretti o mediati con elementi di spicco di Cosa nostra, tra cui il boss latitante Matteo Messina Denaro.
Già lo scorso agosto era arrivata una busta, contenente delle minacce di morte e un proiettile, destinata a un sostituto procuratore il cui nome, tuttavia, non risultava tra quelli appartenenti al Palazzo di giustizia trapanese. Un episodio subito ricollegato a quello accaduto ad aprile 2012, quando una macchina aveva pedinato quella del procuratore Marcello Viola per diversi chilometri in autostrada: le indagini sul numero della targa non avevano portato ad alcun veicolo, il che fa supporre l’utilizzo di una targa falsa, e i due imprenditori edili a bordo dell’auto si erano giustificati con una versione che dava adito a molti dubbi.
Lo scorso luglio, invece, sulle pareti di un centro commerciale e dell’ascensore dell’abitazione palermitana di Viola, sono comparse delle scritte indirizzate a lui e Tarondo: “Viola devi morire”, e “Tarondo la tua ora è arrivata”. Una escalation di eventi volti a minare la sicurezza di due dei magistrati più impegnati nelle inchieste antimafia, con una strategia, ahinoi, già più volte messa in atto: a dicembre dell’anno scorso arrivò una missiva indirizzata alla segreteria del procuratore, dove l’anonimo autore della lettera, oltre alla minaccia di morte scriveva: “Io la stimo e voglio metterla in guardia” del fatto che “E’ già arrivata una cosa per lei”, descrivendo inoltre con preoccupante precisione alcuni delicati dettagli delle indagini da lui seguite. Come quella sullo scandalo della curia, che ha portato all’allontanamento del vescovo Miccichè, o il sequestro dell’impero economico di Carmelo Patti, accusato di essere referente e prestanome di Matteo Messina Denaro. Un nome a cui non si può fare a meno di pensare in relazione alle minacce di cui è oggetto la Procura di Trapani e non solo. È il caso del pubblico ministero Antonino Di Matteo, titolare del processo sulla trattativa Stato-mafia, destinatario di diverse lettere minatorie: una in particolare annuncia la decisione presa da “amici di Matteo (Messina Denaro, ndr)” di eliminare il pm di Palermo.
Recentemente la Dia nella relazione semestrale al Parlamento relativa al periodo luglio-dicembre 2012, ha scritto che ''Resta indiscussa la leadership del latitante Matteo Messina Denaro, capo della mafia trapanese, già componente della commissione regionale e in grado di godere di una rete di sostegno e protezione vasta e articolata'' in una zona della Sicilia dove solo poche settimane fa per la prima volta un imprenditore ha sporto denuncia contro il pagamento del pizzo (Gregory Buongiorno, presidente di Confindustria a Trapani), e dove lo scorso aprile è stato scoperto l’ennesimo fidato collaboratore della primula rossa di Castelvetrano, la cui autorità sul territorio sembrerebbe risultare tutt’altro che indebolita. Si tratta di Vito Nicastri, imprenditore al quale è stato sequestrato un patrimonio del valore di 1,3 miliardi di euro e al quale ha fatto seguito nella giornata di ieri un secondo sequestro pari a 3,5 milioni. Una prova in più del fatto che Cosa nostra non ha nessuna intenzione di rinunciare al controllo sul territorio trapanese.

Foto © vlipari

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