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mori-mario-web0Attesa la sentenza sul capo del Ros per la mancata cattura di Provenzano nel 1995
di AMDuemila - 17 luglio 2013
Arriverà in giornata la sentenza riguardante il processo che vede come imputati gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento aggravato al boss Bernardo Provenzano. Questa mattina alle ore nove si terranno le conclusioni delle controrepliche dei legali della difesa dopodiché la Corte si ritirerà in Camera di Consiglio. Che la sentenza sia prevista in giornata lo si evince da un semplice fatto. Se il presidente Mario Fontana, avesse ritenuto necessaria una notte per decidere la sorte giudiziaria di Mori ed Obinu avrebbe infatti convocato l’ultima udienza nell’aula bunker, attrezzata per una permanenza notturna. Così non è stato.

Nei giorni scorsi il pm Antonino Di Matteo aveva ribadito in udienza: “E’ indubbio che esistono numerosi, precisi, gravi e convergenti elementi che devono portare ad una conclusione giudiziaria certa, che è quella dell’affermazione della responsabilità penale di entrambi gli imputati, al di là di ogni ragionevole dubbio. Nell’affermare la penale responsabilità e nel condannare gli imputati Mori e Obinu, rispettivamente alle pene richieste di anni 9 di reclusione (per Mori) e anni 6 e mesi 6 di reclusione (per Obinu) renderete un’opera di giustizia e renderete onore anche ai tanti servitori dello Stato, ai tanti carabinieri che quotidianamente affrontano il loro lavoro con costo enorme di sacrifici e di rischi”.
L'accusa aveva anche chiesto l'acquisizione di un documento in cui veniva dimostrata l’assegnazione del fascicolo a Borsellino e a Vittorio Aliquò, datato 8 luglio 1992, riguardo al  Corvo 2, l'anonimo che a metà giugno del ‘92, inviò in Procura otto pagine scritte in cui si sosteneva che l’ex ministro dc Calogero Mannino aveva incontrato Totò Riina in una sacrestia di San Giuseppe Jato (Palermo). La Corte però non ha accolto la richiesta.
La sentenza di oggi diviene importante anche come “verifica processuale” per spiegare una parte di quei passaggi che entrano a far parte della trattativa stato-mafia condotta a cavallo delle stragi.
Secondo l'accusa la mancata cattura del boss corleonese Bernardo Provenzano a Mezzojuso nel ’95, rientrerebbe nell’ambito del dialogo tra le cosche e le istituzioni.
Durante la requisitoria il pm Antonino Di Matteo ha detto che Mori, imputato anche nel processo sulla trattativa per violenza al corpo dello Stato, e Obinu “non sono né collusi né corrotti, ma hanno fatto una sciagurata scelta di politica criminale e hanno tradito la fedeltà giurata alla Costituzione, alla legge e all’Arma dei Carabinieri”.
La difesa da parte sua, sostenuta dagli avvocati Basilio Milio ed Enzo Musco, ha ribadito che: “il fatto non sussiste” e pertanto i due ufficiali dell'Arma andrebbero assolti.
I due difensori sostengono che quel giorno Provenzano non era a Mezzojuso, e che le accuse del colonnello Michele Riccio (il principale teste dell'accusa il quale raccolse le dichiarazioni del confidente Luigi Ilardo, poi assassinato dalla mafia il 10 maggio 1996) scattarono con ritardo rispetto agli avvenimenti, e cioè nel 2001, solo in seguito all'indagine della Procura di Genova sul suo coinvolgimento in un traffico di droga, e dopo che nel ’97 era stato arrestato dal Ros. A dimostrazione dell'infondatezza di simili ricostruzioni lo stesso Di Matteo aveva replicato all'udienza della scorsa settimana quando il pm ha ribadito sottolineando la fondamentale importanza delle agende e dei floppy disk del colonnello Riccio ai fini dell’accertamento della verità. “E’ estremamente importante – ha evidenziato il pm – che Riccio abbia scritto quelle cose in quel determinato periodo e non dopo essere stato arrestato dal Ros per i fatti di Genova. Qui non c’è volontà di vendetta!”.
Altra testimonianza chiave del processo quella di Massimo Ciancimino che ha raccontato ai giudici come Mori e il capitano Giuseppe De Donno nell’estate del ’92, avviarono un dialogo con suo padre don Vito, con l’obiettivo, come raccontato dagli stessi carabinieri, di “fermare le stragi”.
Tra i “garanti istituzionali” che erano stati individuati, secondo il racconto di Ciancimino, vi era l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino (indicato ugualmente anche dal pentito Giovanni Brusca ndr), che però ha sempre smentito di essere a conoscenza di un’interlocuzione tra Stato e mafia.
Durante il processo è stato sentito anche l'ex guardasigilli Claudio Martelli che ha raccontato di aver saputo da Liliana Ferraro, all’epoca direttore degli Affari penali, che Mori aveva avviato “un’iniziativa investigativa” con Ciancimino.
La Ferraro aveva raccontato a Martelli che lo stesso De Donno le aveva chiesto un “sostegno politico” per l'iniziativa che stavano intraprendendo, in considerazione del fatto che Vito Ciancimino era un personaggio “forte”, con ciò intendendo un mafioso di primo piano.
L'ex direttore degli affari penali aveva quindi consigliato al capitano De Donno di parlarne con Borsellino anche se poi era stata lei stessa ad accennarlo al giudice il 28 giugno ’92 all’aeroporto di Fiumicino. Di fronte alla notizia di quei dialoghi tra Ros e Ciancimino Borsellino aveva replicato con decisione: “Adesso ci penso io” dando a intendere di esserne già a conoscenza. Di fatto proprio l'opposizione del giudice a quella trattativa tra Stato e mafia sarebbe stata la causa che avrebbe accelerato la sua condanna a morte.

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