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nel-regno-mafiaAffari, politica e banche. Le cosche all’alba del ’900
di Attilio Bolzoni - 3 luglio 2013
Un secolo dopo l’uscita, torna il celebre saggio di Colajanni sulla criminalità. E già allora si parlava di trattative fra lo Stato e i boss
Ogni volta che se ne parla ci sorprendiamo sempre, come se l’avessimo appena scoperta. Eppure la conosciamo da molto tempo. Noi italiani abbiamo poco più di centocinquant’anni e – ufficialmente – anche la mafia ha la nostra età. Siamo nati insieme, siamo cresciuti insieme. È vissuta con noi e fra noi, a volte abbiamo fatto finta di non vederla, altre volte non abbiamo potuto ignorarla. Ma è rimasta sempre lì, in mostra o mascherata, aggressiva o silenziosa.
La mafia - questa è ormai la parola italiana più conosciuta al mondo, più di pizza, più di spaghetti - in verità è sempre stata uguale a se stessa e sempre diversa. Si è semplicemente adattata ai cambiamenti della società, nascondendosi, mimetizzandosi. Era rurale ed è diventata urbana, si è trasformata in multinazionale, prima della droga e poi della finanza.
In un recentissimo passato c’è chi si è spinto ad affermare che la sua storia sia stata, né più né meno, la storia d’Italia. Un punto di vista un po’ azzardato che non ne facilita la sua comprensione, facendoci vedere la mafia anche dove
non c’è e – soprattutto - a non farcela vedere mai dove invece c’è. Allora, forse, sarebbe meglio riconoscere che dentro la storia della mafia c’è anche un pezzo importante della storia d’Italia. E che la storia della mafia ci aiuta a capirne alcuni passaggi fondamentali.

Un saggio di centotredici anni fa appena ristampato – Nel regno della Mafia (Bur Saggi Rizzoli, pagg. 162, euro 10,00) – ci ricorda come quel «dibattito» sul rapporto fra la mafia e lo Stato sia fatalmente senza fine. E «l’odore» che si respira fra le pagine di questo pamphlet ci trasferisce (ci scaraventa, forse sarebbe meglio dire) dall’Italia del 1900 all’Italia di oggi. Sembra scritto ai giorni nostri il libro di Napoleone Colajanni, cospiratore mazziniano, ex garibaldino di Castrogiovanni – l’attuale Enna, al centro della Sicilia - poi «agitatore » politico e poi ancora deputato repubblicano diventato famoso per avere scoperchiato con le sue denunce il primo grande scandalo nazionale, quello della Banca Romana.
La tentazione che viene leggendolo, è quella di mantenerne intatta la trama sostituendo qua e là i nomi citati da Colajanni con alcuni dei nostri ultimi illustri uomini politici, alcuni funzionari di alto rango, alcuni capi mafiosi.
Pensare però che in questi centotredici anni non sia cambiato nulla – proprio nulla? - significherebbe fare un favore (un altro) alla mafia e non tenere ragionevolmente conto dei passi avanti fatti (per esempio la «rivoluzione giudiziaria» di Giovanni Falcone e quel capolavoro che è stato il suo maxi processo a Cosa Nostra) e della nascita e dell’evoluzione – pur con tutti i suoi limiti e le sue derive – di quel movimento che ha preso il nome di «antimafia».
È indubbio comunque che il racconto di Colajanni, e l’analisi che fa di quella società di fine Ottocento, ci ripropone storicamente sconvolgenti somiglianze con quella contemporanea.
Napoleone Colajanni scrive tanto di mafia ma anche tanto di corruzione. E di vergognose scorribande bancarie, di coinvolgimenti fra sicari e «galantuomini » del Parlamento, di complotti di giudici e complotti contro giudici, di depistaggi, di una sbirraglia al servizio dei potenti, di trattative fra Stato e crimine, di oppressione «legale e illegale », di voto di scambio, di grandi elettori briganti, di Destra e Sinistra che si confondono, di «anarchia di governo», di «ministri conniventi coi delinquenti».
La tentazione, pagina dopo pagina ritorna sempre: è stato davvero scritto più di un secolo fa Nel regno della Mafia?
Sicuramente Colajanni si è rivelato uno straordinario «cronista», meridionalista schierato contro le perversioni dello Stato unitario, sempre al fianco del proletariato contadino delle Calabrie e delle Puglie – così venivano chiamate allora - schiacciato dalla sconsiderata e criminale decisione di dividere, «spaccare» l’Italia fra Nord e Sud.
La sua denuncia più clamorosa, come abbiamo già accennato, fu quella contro il «buco» della Banca Romana, che nel passato era stata la Banca dello Stato Pontificio. Con le sue interpellanze parlamentari (e grazie a un dossier ricevuto segretamente sulle manovre occulte nell’istituto di credito), Colajanni nel 1893 provocò con una coraggiosissima campagna politica la caduta del governo Giolitti. Un inizio di Tangentopoli dell’età umbertina. Un ammanco di 9 milioni di lire, l’immissione di banconote false (stampate in doppia serie) per arricchire senatori e ministri, concessioni disinvolte di mutui a imprenditori legati alla prima grande speculazione edilizia di Roma. Ci furono arresti e indagati celebri, ci furono anche funzionari della banca che si suicidarono. A cosa ci riporta tutto questo, se non agli avvenimenti degli ultimi anni in un’Italia dove politica e banche e finanza si sono intrecciate, sostenute e spremute a vicenda?
Nel libro si rivela anche una delle tante trattative fra Stato e mafia. Parlarne, ancora oggi fa paura. Se ne discute con stupore. Prima o dopo quella parola trattativa – negli articoli di stampa o nelle dispute si colloca prudentemente sempre un aggettivo, presentandola come improbabile o addirittura inverosimile. Quindi, una volta diventa «presunta», un’altra volta «ipotetica ». È un’ipocrisia tutta italiana per non vedere quello che abbiamo avuto sempre sotto gli occhi da centocinquanta anni.
La storia della mafia è una storia infinita di trattative con lo Stato: c’è un filo che - dall’Unità d’Italia allo sbarco degli alleati, passando per il fascismo – ci trascina fino alle stragi del 1992.
Nel Regno della Mafiasi ricordano «transazioni» fra boss e autorità di polizia, si citano «relazioni amichevoli fra delegati di sicurezza pubblica con noti ladri », si racconta di questori che occultavano prove per proteggere assassini. Intese. Sodalizi. Lo dicevamo all’inizio: la mafia cambia sempre ma è sempre la stessa. Qualcuno oggi sostiene che si arriverà – o ce l’abbiamo già? - ad una mafia senza mafiosi. Sempre meno caratterizzata con il territorio, meno «tipica», molto diversa da quella che abbiamo imparato fin qui a conoscere.
Cosa dire di più? Forse è Colajanni stesso che ci dice tutto, nelle ultime righe del suo libro: «Per combattere e distruggere il regno della Mafia è necessario, è indispensabile che il governo italiano cessi di essere il Re della Mafia».

Tratto da: La Repubblica

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