Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

caccia-bruno-webdi Cristina Caccia - 26 giugno 2013
Quand’è morto mio padre avevo 23 anni e fui io quella sera i miei fratelli, sposati, erano via - a scendere in strada, chiamata dalla portinaia, a vedere mio papà sull’asfalto, per il quale non c’era più nulla da fare, e a riprendere il cane urlante per andare a dare la notizia alla mamma. È la prima volta che scrivo di questo sul giornale dove lavoro da più di vent’anni, e anzi è la prima volta che in assoluto ne scrivo, ricordando.
Già, la memoria. Questi 30 anni dall’omicidio sono per noi figli una data terribile: perché ci riporta a quei terribili giorni e nello stesso tempo ci pungola a fare sì che non siano passati invano, spingendoci - noi come il resto della società civile - a ricordare ma in modo «attivo», cercando di attualizzare l’accaduto e a rivederlo alla luce di ciò che è successo nel frattempo. In quest’ottica quest’anno, in occasione del trentennale, abbiamo chiesto in una lettera aperta che questo anniversario serva anche a disegnare nuove strade per comprendere in modo più completo i motivi che hanno portato a quel delitto. In quest’ottica è in preparazione una richiesta di riapertura delle indagini.

Bruno Caccia era una persona semplice, allegra, che amava la famiglia e la campagna, il tennis e la montagna, i comici e fare l’orto; curioso di tutto, quando parlando gli veniva un dubbio su qualcosa andava a prendere l’enciclopedia e controllava: se fosse vissuto, avrebbe certamente adorato internet.

Di intelligenza pronta, preparato e bravo nel suo lavoro, non ne parlava mai in casa, per serietà e necessaria riservatezza. Per questo - e per il fatto che non si dava arie e si approcciava con tutti «alla pari» - noi figli non avevamo la percezione di quanto il suo lavoro fosse importante nella società: l’avemmo solo dopo, grazie ai giornali e ai racconti dei colleghi.

Ricordo a questo proposito - frequentavo allora le Medie al Conservatorio - di un incontro che la professoressa di italiano aveva organizzato con i «papà» della classe, perché venissero a raccontare ai ragazzi le loro professioni. Ricordo che ero preoccupatissima riguardo al mio che - venendo chiamato via via «giudice», «consigliere», «avocat» come s’usa in piemontese, da chi telefonava a casa non capivo mai bene cosa facesse e di cosa si occupasse, a differenza dei compagni che, fortunati, avevano padri medici, insegnanti, architetti, tutte professioni più comprensibili quella misteriosa del magistrato.

Nei vari appuntamenti a cui ho partecipato per ricordarlo, lui nel suo lato «pubblico», se richiesta ho cercato di raccontare com’era in casa, il suo forte senso dell’umorismo, l’interesse per la giornata di scuola di noi figli, per ricordare a tutti che i martiri della giustizia sono sempre persone normali, a cui purtroppo nel fare il proprio dovere è richiesto un prezzo troppo alto. A chi mi domanda quali insegnamenti mi abbia trasmesso mio padre, due sono le cose, fra tante, che mi vengono in mente. Che la responsabilità è personale, e dunque il male agire del vicino non scusa il mio. Che il dovere è una cosa semplice: è da fare e si fa, punto. Cose ovvie, ma di un’ovvietà che se messa in pratica da tutti potrebbe smuovere le montagne.

Tratto da: La Stampa

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos