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la-torre-pio-webdi AMDuemila - 30 aprile 2013
A due passi dalla sede del PCI siciliano, il 30 aprile 1982, Pio La Torre e il suo collaboratore Rosario Di Salvo vennero accerchiati da una motocicletta e da una macchina. Senza via di fuga, in pochi attimi, il segretario siciliano del Pci e il suo collaboratore si trovarono sotto una raffica di colpi dei killer di Totò Riina. Rosario riuscì a sparare solo 5 colpi nel tentativo invano di difendere se stesso e il capogruppo del PCI, ma entrambi morirono all’interno della macchina trafitti da una pioggia di pallottole.
Pio La Torre sapeva di andare incontro a questa fine, per questo assieme al suo collaboratore aveva deciso di procurarsi il porto d’armi. Erano gli anni di piombo di Cosa Nostra. Prima di lui erano stati uccisi altri uomini che si erano messi contro la mafia e  contro certi sistemi di potere che con lei trattavano. Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo, Cesare Terranova, magistrato, Piersanti Mattarella, presidente della Regione, Emanuele Basile, capitano della compagnia dei carabinieri di Monreale (a due passi da Palermo), Gaetano Costa, procuratore capo e il medico chirurgo, Sebastiano Bosio, e l’imprenditore Pietro Pisa. A quei tempi, all’evoluzione di una nuova mafia si contrapponeva l’azione di singoli individui dalle personalità forti, decise e  incorruttibili, ma isolati ed abbandonati dalla maggior parte del popolo e dalle Istituzioni.

Pio La Torre, proveniente da una poverissima famiglia di contadini di Palermo era fra questi. Dal 1945 cominciò la sua azione politica all’interno del partito Comunista partecipando alle lotte contadine contro i potenti latifondisti. In seguito ad una di queste manifestazioni trascorse anche 18 mesi di carcere per “scopo Preventivo”. Nel 1969 si allontanò  da Palermo per andare a Roma dove fù deputato per tre legislature, e iniziò un importante  lavoro all’interno della commissione antimafia.
Nel 1976 firmò la relazione di minoranza della Commissione, nella quale muoveva un atto d'accusa contro la Dc di Salvo Lima e di Vito Ciancimino. Fu lo stesso La Torre ad elaborare un disegno di legge che introdusse il nuovo reato di associazione mafiosa e la confisca dei beni, disegno condiviso con Virginio Rognoni ma che venne approvato solo in seguito allla sua morte.
Nel 1981, tornato in Sicilia come segretario regionale del Pci, impegnò tutte le sue forze in una campagna per la pace, contro l’installazione della base missilistica a Cosimo. Nel combattere questa battaglia  si rivolse a tutti, indipendentemente dal partito politico o dalla nazionalità. La campagna raggiunse il suo culmine il 4 aprile del 1982 con la manifestazione dei centomila a Cosimo, contro l’installazione dei missili Criuse. In poche settimane riuscì a raccogliere trecentomila firme.
Queste iniziative attirarono su di lui l'attenzione dei servizi di sicurezza. Tanto che dal processo sono emerse le tracce di una prolungata attività di ''osservazione''. A lungo l'esponente comunista era stato considerato informatore del Kgb, amico dei cinesi, per questo soggetto ''pericoloso''. Poi le note informative ne avevano ''declassato'' il ruolo.
Altra battaglia da lui sostenuta  è quella contro la nuova mafia che stava prendendo forma in quel periodo. Il traffico di droga, i contatti tra le famiglie siciliana e americana, la speculazione edilizia e gli appalti truccati.
Pio La Torre si occupò anche di massoneria deviata, dei legami tra mafia e trame piduiste, non mancò di denunciare pubblicamente l’uccisione di Giorgio Ambrosoli e la presenza a Palermo di Sindona nei giorni del suo finto sequestro. Colse anche i segnali di una ripresa della guerra fredda data la creazione, in Sicilia, di strutture segrete come Gladio.
Conduceva le sue battaglie sia in parlamento che nelle piazza, parlando con la gente e dando l’esempio. La Torre era un politico che, provenendo da una famiglia povera sapeva rivolgersi a qualsiasi fascia sociale, in modo chiaro, semplice e pratico. Berlinguer di lui disse: “Non era un uomo da limitarsi ai discorsi e alle analisi, era un uomo che faceva sul serio, per questo lo anno ucciso”.
L’omicidio fu classificato come un “delitto politico e istruito dal giudice Giovanni Facone il quale nel tentativo di allargare l’inchiesta si scontrò con l’ostilità del procuratore del tempo Pietro Gammanco. Il processo si è quindi concentrato sugli aspetti esecutivi dell’agguato, resi noti grazie alle dichiarazione dei pentiti Salvatore Cancemi e Francesco Marino Mannoia. Per il duplice assassinio furono condannati Totò Riina e Bernardo Provenzano assieme ad altri esponenti della cupole, ma grandi interrogativi rimangono sul ruolo che ebbero poteri occulti e servizi segreti internazionali. Ieri è stato lanciato un appello rivolto al presidente del Senato Piero Grasso perché si torni ad indagare sull’omicidio di Pio La Torre, ma anche perché venga fatta una richiesta al presidente degli Stati Uniti, Obama. A firmare, ex segretari del Pci-Pds-Ds, avvocati e intellettuali, come Luigi Colajanni, Angela Bottari, Angelo Capodicasa, Tonino Russo, Nino Caleca, Salvatore Costantino, Claudio Fava ed Elio Sanfilippo: chiedono che “si adottino tutte le iniziative capaci di far luce sugli inconfessabili intrecci che hanno fatto ritenere l’omicidio di Pio La Torre assolutamente urgente all’ala corleonese di Cosa Nostra”. Per loro il caso La Torre “necessita di atti istruttori straordinari a cominciare da un’esplicita richiesta al Presidente degli Stati Uniti d’America Obama affinché metta a disposizione delle autorità italiane tutto quello che i servizi segreti americani abbiano potuto apprendere sull’attività degli ultimi giorni di La Torre e del perché della sua uccisione”.

Oggi, intervistato da La Repubblica, così, lo ha ricordato il figlio Franco La Torre:
“In quanto genitore ed educatore mio padre aveva una grande qualità: non rompere le scatole. Sono stato educato alla libertà, nella piena consapevolezza che più che le cose dette, valgono le cose fatte. Il modello educativo era lui stesso, il suo esempio. Mi ha sempre lasciato scegliere in autonomia e indipendenza, senza imposizioni”…
Alla domanda se avesse mai percepito paura nel padre nei mesi che precedettero il suo assassinio Franco risponde: ”Assolutamente no. Non si lasciava ossessionare, altrimenti gli sarebbe venuta meno l’energia per la lotta. Era sorridente e i suoi ritorni a Roma erano dei veri e propri abbracci d’affetto in cui traspariva la soddisfazione per quello che stava ottenendo a Comiso. Certo, sapevamo che era in pericolo. Lo avevano costretto a prendere il porto d’armi, mossa stupida perché mio padre non era uomo da impugnare pistole”.
E in conclusione non ha rinunciato ad esprimere una considerazione sull'attuale governo: "Si è scelto per lo status quo. Con persone bellissime, donne molto preparate e anche uomini molto capaci, ma la scelta è sicuramente di ripristinare lo stato delle cose. In questo paese troppe volte quando forze progressiste hanno fatto capolino, sono state represse da quello che mio padre chiamava il “potere politico mafioso” che rifiuta il dissenso e il confronto democratico e che quando vuole spara. Io mi auguro che non si arrivi a questo”.

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