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dalla-chiesa-nando-web0di Giuseppe Lo Bianco - 28 aprile 2013
Quella sera del 3 settembre 1982 a Palermo, e nei giorni successivi anche in Campania, i servizi segreti organizzarono una caccia “a tappeto” alle carte riservate del generale Carlo Alberto dalla Chiesa appena ucciso, facendole sparire dalla borsa di pelle, ritrovata vuota dopo 31 anni a palazzo di giustizia, sottraendole da sotto il sedile della 112 dove il prefetto era riuscito a nasconderle, ripulendo la cassaforte di villa Paino dove si introdussero con il pretesto di prendere delle lenzuola, e cercandole persino nella villa di famiglia a Prata, in Campania, da cui sottrassero intere cassettiere che custodivano le lettere private inviate dal generale alla moglie, nel periodo della sua prima permanenza in Sicilia, a Corleone.
Ne è convinto Nando Dalla Chiesa, il figlio del generale ora in vacanza a Londra, che oggi, dopo il ritrovamento della borsa vuota, grazie anche alle indicazioni del misterioso anonimo di 12 pagine inviato al pm Nino Di Matteo, rilancia la matrice politica del delitto: “Considerammo quel furto un atto ignobile di gente del luogo - dice oggi Dalla Chiesa - dopo 30 anni ci siamo ricreduti: subito dopo il delitto di mio padre i Servizi organizzarono una vera e propria caccia alle sue carte investigative, molto pericolose per Cosa Nostra e per i suoi protettori politici”.

Dalla Chiesa, la borsa di suo padre come quella di Borsellino: in entrambe il contenuto si è volatilizzato. Che analogie ci vede?
Molte. In famiglia abbiamo cominciato ad avere dei dubbi dopo la storia dell’agenda rossa di Paolo Borsellino scomparsa dopo l'attentato di via D’Amelio. Troppe coincidenze. In entrambi i casi sono stati sottratti documenti utilissimi alle indagini che nel caso di mio padre erano stati persino repertati in un verbale.

Scomparsi non solo i documenti nella borsa, ma anche quelli nascosti sotto il sedile di guida…
Questo particolare mi ha colpito ancora di più. Se mio padre li aveva voluti nascondere lì, evitando di poggiarli nel sedile posteriore esposti alla vista di tutti, vuol dire che l’anonimo ha in qualche modo ragione : stava indagando su qualcosa di scottante e i servizi nelle ore successive all’omicidio hanno dato la caccia a tutti i possibili nascondigli, a Palermo e anche fuori dalla Sicilia.

Non solo la cassaforte di Villa Paino aperta probabilmente la sera stessa del delitto, con la chiave sparita il 4 settembre e ricomparsa magicamente dentro un cassetto l’11, ma adesso lei lega a questi eventi anche il furto a Villa Dora, la vostra residenza di famiglia in Campania. Perché pensa a un’irruzione mirata dei Servizi?
Troppe coincidenze strane nelle fasi successive all’omicidio di mio padre: allora non ci abbiamo fatto caso, oggi alla luce di questo ritrovamento i sospetti sono più forti. Pensi che tre anni fa una persona contattò mia sorella Rita dicendole di avere trovato sulla bancarella di un mercatino alcune lettere tra mio padre e mia madre molto intime, risalenti proprio al periodo della mia nascita, quando mio padre prestava servizio in Sicilia. E ho saputo anche che altre lettere sono state messe all’asta sempre a Roma: in quel caso sono state sequestrate dai carabinieri.

Che cosa le fa pensare che invece che carte investigative suo padre non custodisse le carte di Moro, come ha lasciato intendere Buscetta e più esplicitamente detto la signora Setti Carraro?
Credo che questo ritrovamento è anche il modo migliore di restituire giustizia alla memoria di mio padre. Quella delle carte di Moro l’ho sempre considerata una colossale bufala. Lui era un grande lavoratore, nei posti in cui era stato aveva sempre avviato indagini importanti studiando le carte sino a sera tarda. Lei pensa che fosse venuto a Palermo per partecipare a due incontri nelle scuole o sequestrare il pane abusivo agli angoli delle strade? Io non so su cosa stesse indagando, ma so che le carte che teneva nella sua cartella di pelle non sono mai arrivate sul tavolo del giudice Giovanni Falcone.

Un mese fa lei è stato interrogato dai pm di Palermo che hanno ricevuto l’anonimo. Cosa le hanno chiesto?
Volevano accertare se davvero mio padre avesse questa abitudine di tenere con sé questa cartella di pelle e io l’ho confermato.

Oggi l’anonimo accusa un ufficiale dei carabinieri di avere sottratto il contenuto della borsa. C’è materia per riaprire l’indagine andando oltre il livello mafioso?
Sicuramente sì. Sono passati tanti anni, ma il fatto che mio padre non si separasse mai da quella cartelletta, una specie di valigetta, e che adesso è risultata vuota, è indicativo del fatto che la matrice dell’omicidio fosse più politica. Resta ancora un giallo infinito, uno dei tanti misteri italiani, ma è un fatto importante l’aver trovato quella cartelletta di pelle vuota.

Tratto da: ilfattoquotidiano.it

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