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maggiani-chelli-giovanna-web2di Giovanna Maggiani Chelli* - 25 ottobre 2012
Venti anni, ragazzi. Come molti di voi qua dentro.
Il prossimo 27 maggio 2013, saranno passati venti lunghi e dolorosi anni.
Uno di questi giorni stavo parlando con un mio buon amico giornalista. Stavamo discutendo su quel “famoso” mancato attentato allo Stadio Olimpico di Roma. Mi ha detto, questo buon amico: “Sulla data l'ho sempre pensata come te (credo che i mancati attentati siano due).

Bisognerebbe vedere su quali riscontri alle dichiarazioni di Spatuzza l'hanno potuta datare nuovamente. Ho sentito dire che hanno trovato il giorno esatto del furto della Lancia Thema, ma non ne sono così sicuro. La verità è che quelle carte non le ho mai potute vedere. Però forse solo è colpa mia, perché dovrebbero essere depositate. E non mi stupisce che sui quotidiani si  parta in quarta per demolire Chelazzi - ha concluso - è l'ultimo ostacolo da superare, poi la commissione antimafia può chiudere il cerchio attorno all'assunto che la trattativa ci fu, ma non sul 41 bis. Tarallucci, vino e addio ad ogni speranza di verità”.

Questa sua riflessione mi ha colpito molto. E adesso vi dico perché.

Quando Spatuzza si affaccia per la prima volta al poggiolo dei collaboratori di giustizia, i nostri cuori si sono allargati e riempiti di speranza.

Ma quando lo stesso Gaspare Spatuzza, durante il processo Dell’Utri al tribunale di Torino, ha sparato a zero sui nomi eclatanti di dell’Utri e Berlusconi che Graviano gli avrebbe resi noti al Bar Doney a Roma nel gennaio del 1994, l’inquietudine ha iniziato a prendere il posto della speranza. Perché una mossa così deleteria per la verità? Perché davanti a 200 televisioni da tutto il mondo? Perché quelle parole in un processo che non era per strage?

Non sapevamo che la nostra inquietudine era destinata solo ad aumentare durante il processo di Firenze a Tagliavia. In quell’occasione, Spatuzza ha ricostruito le dinamiche dell’attentato di via dei Georgofili in modo un po’ raffazzonato, con quel “un po’ più in là” riferito al posizionamento dell’autobomba.

Quando poi Spatuzza sposta la data del mancato attentato all’Olimpico l’inquietudine va alle stelle.
Dal 31 ottobre 1993, come l’aveva data Chelazzi, sposta la data al 23 gennaio 1994, portando a buona ragione il ritrovamento delle targhe della lancia thema che doveva essere usata per l’attentato.

Se il pentito è attendibile in tutto ciò che dice, perché dubitare per uno spostamento di data?
E soprattutto: perché dubitare di quel “qualche metro più in là” di via dei Georgofili, sotto la torre de Pulci?

Noi a Spatuzza abbiamo creduto.
Abbiamo creduto al processo Tagliavia.
Abbiamo creduto al giudice, che ha scritto “Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des” e “l’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia. L’obiettivo che ci si prefiggeva quantomeno al suo avvio era di trovare un terreno con cosa nostra per far cessare la sequenza delle stragi”.

Abbiamo fortemente creduto al nostro avvocato di parte civile, un penalista doc come l’avvocato Ammannato, che ci ha guidati nei processi per le stragi e che al Processo Tagliavia ha dato il meglio di sé.

Noi abbiamo creduto a Spatuzza.
Ma il mio amico giornalista, guardando dall’esterno e con occhio scettico, non ha tutti i torti quando dice che demolire Chelazzi è l'ultimo ostacolo perché la commissione antimafia chiuda il cerchio attorno all'assunto: la trattativa ci fu, ma non sul 41 bis. Tarallucci, vino e addio ad ogni speranza di verità.

Credetemi.

Quando è uscita sul TG5 e poi su Il Giornale e su Libero quella terribile parte di lettera che Chelazzi scrisse poche ore prima di morire, mentre a noi era stato detto che fu trovata nel suo cassetto che era li da tempo e non sapeva se spedirla, tutto intorno a noi è vacillato.

Chelazzi fu un uomo solo davanti ad una mole di lavoro degna non di un pool antimafia come fu per il maxi processo, ma addirittura di un vero collegio nazionale di magistrati. Perché quello che Gabriele Chelazzi da solo stava cercando era la verità più grande e spaventosa per la democrazia italiana, la verità sulle complicità politiche, la verità sulle commistioni economiche, la verità sulle connivenze ecclesiali ed imprenditoriali. La verità profonda e sconvolgente intorno a quei mille chili di tritolo usati nel 1993.

Chelazzi, di fronte a tutto questo, era solo. Anche David, contro mille Golia, sarebbe stato destinato a soccombere. A sacrificare la propria vita sull’altare della verità.

Non mi vergogno a dirvi che ho pianto mentre leggevo la lettera di Gabriele Chelazzi che il Giornale di Berlusconi riportava a pieno titolo.

Noi pretendiamo quella lettera, adesso.
Noi pretendiamo quella lettera e pretendiamo di sapere se è la stessa della commissione antimafia.

Se il presidente della Commissione Antimafia vuol sentirsi fare una richiesta ufficiale da me in qualità di presidente dell’Associazione che rappresento, la richiesta di avere quella lettera angosciante che ha segnato le ultime ore di Chelazzi, sono disponibile ad andare personalmente in Commissione Antimafia.

Anzi, la mia richiesta ufficiale è quella che fanno tutti questi ragazzi, che chiedono un mondo migliore senza segreti. Ecco perché chiedo di essere ascoltata dalla commissione antimafia.

Qualche anno fa abbiamo avuto a questo tavolo uno dei presidente antimafia, Forgione, il quale quel giorno disse che stavano indagando sulle stragi del 1993, che la procura di Firenze gli aveva dato gli atti. Forgione però non ha detto, davanti ai ragazzi fiorentini dell’università, che GABRIELE CHELAZZI ERA STATO LASCIATO SOLO.
Come Giovanni Falcone, lasciato solo.
Come Borsellino, lasciato solo.
Quanti sono morti perché lasciati soli?

E noi, oggi, cosa dobbiamo fare? Dopo venti, lunghissimi anni, cosa dobbiamo fare noi? A chi dobbiamo credere, noi?
Al giornalista che mette in dubbio le date dell’Olimpico? O dobbiamo resistere in quella fede incrollabile nella magistratura libera che ci ha sempre contraddistinti?

Noi oggi qui vogliamo fare un atto di fede.
Faremo un atto di fede perché non possiamo dimenticare lo sforzo di intelligenza e di maestria compiuto dall’avv. Ammanato al processo Tagliavia per l’accertamento della verità all’interno di un processo nel quale ha creduto e nel quale dobbiamo credere anche noi.

Ma non vogliamo sentirci dire che, se Chelazzi fosse ancora vivo, sarebbe contento della spostamento di data dell’olimpico e delle nuove indagini.
Che si parli di 31 ottobre 1993 o di 23 gennaio 1994, quello che non cambia sono le responsabilità di chi i primi di novembre del 1993 sposto 334 mafiosi più o meno importanti da 41 bis a carcere normale.

Ecco quello che non cambia. Perché questo vuol dire che all’allora ministro della giustizia non importava nulla dei morti di Firenze, di appena 5 mesi prima.

Quando i tedeschi sono venuti a Firenze e hanno fatto saltare i ponti non è venuto in mente a nessuno di stendere ai tedeschi un tappeto rosso su ponte vecchio.
E allora, come ha potuto l’esimio professore Conso firmare 334 passaggi da 41 bis a carcere normale?

Poco dopo, 8 di questi mafiosi furono rimessi in regime di 41 bis. I corpi senza vita di Caterina, di Nadia e dei loro genitori e quello di Dario erano ancora caldi. Le vite di decine di altre persone stuprate per sempre. Persone innocenti, persone che dormivano nei loro letti, che studiavano, che sognavano. Vite che non sarebbero mai più state vissute.

Prima ci sentiamo dire che quei passaggi furono fatti per evitare altre stragi.
Poi ci sentiamo dire che il 41 bis non c’entrava nulla con le stragi.
Ci sentiamo dire che 23 mafiosi di cosa nostra, fra quei 334, erano troppo pochi per aver a che fare con le stragi.

E allora chiediamo un favore.
Anzi: chiediamo che ci facciano un favore.
Chiediamo che si diano una regolata le varie Fusani, ma anche i Manconi, i Sofri, i Pannella, con i loro starnazzi, che fanno coro a quelli delle associazioni che rappresentano le “urla dal silenzio” e “il fine pena mai”.

Noi non possiamo volare alto oltre il 41 bis, perché ci hanno tarpato le ali.

Ma una cosa è certa: noi non guardiamo in faccia a nessuno. Noi non facciamo comizi, non parliamo a vanvera, non diciamo opinioni intercambiabili a seconda del giorno e dell’interlocutore che ci troviamo di fronte. Noi siamo stati sempre fedeli a noi stessi, noi stiamo dalla parte di Gabriele Chelazzi e del bisogno quasi fisico di sapere la verità. Un bisogno che ci è ormai entrato nel sangue.
Volete sapere perché, cari signori?

Guardate in faccia i vostri figli, la sera. Guardateli mentre studiano, crescono, amano. A noi questo privilegio è stato tolto venti anni fa. Vogliamo, dobbiamo sapere perché.

*Presidente
Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili

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