A Castelvetrano e Partanna sta nascendo una nuova cooperativa sui terreni sottratti ai boss
di Rino Giacalone - 22 ottobre 2012
L’odore del boss Matteo Messina Denaro questa estate è stato quello che lascia il fuoco, la cenere, le fiamme hanno colpito anche qui, a Castelvetrano, e a Partanna, Valle del Belice, guarda caso i roghi estivi se la sono presa soltanto con gli uliveti confiscati al boss e ai suoi complici. Matteo Messina Denaro si nasconde qui tra questi uliveti, lo cercano da quasi 20 anni, aveva 30 anni quando cominciò la sua latitanza.
Non è un capo mafia da “ricotta e cicoria” vive di ben altri agi, ci sono attorno a lui complicità eccellenti che si muovono. Manda i suoi segnali. Con i “pizzini”, e i servizi segreti pensavano di poterlo snidare in questo modo, intercettandoli e usando un ex sindaco di Castelvetrano, Tonino Vaccarino. Il tentativo è andato a vuoto e stranamente ci sono voluti tre anni e oltre per accorgersi della inutilità. Oppure il boss manda a dire di essere presente incendiando i terreni a lui confiscati.
Ma la “bellezza” di questa terra è che qui c’è chi non si arrende. Anzi. Rincara la dose e va in giro a raccontare che contro la mafia è possibile, è un dovere schierarsi. E così giorno dopo giorno a Castelvetrano c’è chi racconta la storia di questa terra che si ribella e mette il nome di una grande rivoluzionaria antimafia sui terreni una volta occupati dalle mafie e dai mafiosi. Tra Castelvetrano e Partanna sta prendendo forma la cooperativa “le Terre di Rita Atria” che si occuperà della gestione di uliveti e vigneti tolti a Cosa nostra. Questo è già successo oltre un decennio addietro nel palermitano, Trapani, si sa, è in ritardo nella tabella di marcia dell’antimafia, ma alla fine le cose si stanno facendo. Rita Atria aveva poco più di 18 anni quando si uccise il 26 luglio del 1992 a Roma, sconvolta dalla mafia che le aveva ucciso il suo secondo papà. Il primo, quello vero, si chiamava Vito Atria, era un “don”, uno dei padrini di Partanna, lo ammazzarono perché non serviva alla nuova mafia e dopo di lui ammazzarono anche il figlio, il fratello di Rita, Nicola.
A Paolo Borsellino prima per vendetta, poi comprendendo il senso giusto delle cose, della giustizia, Rita aveva confidato ciò che aveva appreso ascoltando le cose che il padre andava dicendo a casa su quello che accadeva nelle segrete stanze del potere mafioso belicino. Aveva trovato nuova speranza di vita, la strage del 19 luglio, quella nella quale Borsellino e la scorta furono straziati dal tritolo mafioso, fu per lei un colpo terribile, e così si uccise. Lasciando però un preciso testamento. Le “Terre di Rita Atria” oggi sono il risultato di quel testamento, e il testimone lo stanno raccogliendo tantissimi giovani, belicini, trapanesi, siciliani, ma non solo di queste zone.
Qui nelle “Terre di Rita Atria” stanno arrivando da ogni parte d’Italia, e ci sono gli attivisti di Libera, Maria Teresa, Francesco, Lidia, ed altri ancora che raccontano loro la storia di queste terre che come se miracolate rinascono, nonostante i roghi mafiosi. «Continuamente si rinnova il piacere di condurre i nostri ospiti a visitare i terreni confiscati alla mafia e spiegare loro la bellezza di questo paesaggio generoso e amaro, ostaggio, un tempo, di chi avrebbe voluto impedirne lo sviluppo, oggi consegnato alla comunità per scopi sociali – dice Maria Teresa Nardozza Buccino - . Da ultimi sono venuti a trovarci numerosi soci della Coop Lombardia, che con spirito pronto e collaborativo, è stata promotrice della raccolta fondi da destinare alla creazione della Cooperativa che nascerà a Castelvetrano, intitolata a Rita Atria, quale restituzione di giustizia e riconoscimento del sacrificio di questa giovane donna, affinché non sia rimossa dalla memoria collettiva in questo tempo di oblio».
Rita Atria è qui, in mezzo a questi uliveti è tornata a vivere. «Nel produrre i frutti di una semina attraverso l’olio Libera Terra, consegneremo simbolicamente a Rita un piccolo risarcimento, quando le farraginose pratiche burocratiche si completeranno e si potranno finalmente attivare i lavori». C’è un vento leggero che spira tra le chiome degli ulivi, in contrada Seggio-Torre di Castelvetrano, le parole si confondono con il rumore dei trattori che passano, colmi di quello che a breve diventerà oro verde, che sgorga dalla nostra terra, riarsa dal sole, che stenta a distendersi sul tramonto, in questo pomeriggio di ottobre inoltrato. “Il campo dei segni” lo ha definito Agnese Pagani una dei giovani volontari venuti quest’estate a lavorare con Libera in mezzo a questi uliveti tolti alla mafia e diventati proprietà della società civile. «I segni – scrive Agnese in un suo diario - sono quelli lasciati dai rami e dai rovi. Nell'oliveto confiscato alla mafia ci sono alberi bruciati dalla rabbia cieca di chi pensa di vendicarsi e di spaventare; ma ci sono mani pazienti che tagliano, trasportano, risistemano. Ogni metro c'è un sorriso, c'è Leonardo che manovra la motosega e dirige i lavori, c'è Piero con il furgone, Francesco che fa foto e filmati, c'è un ramo verde e un'oliva che fa capolino tra i rami. C'è rinascita e c'è una speranza».
I segni sono testimonianze. «Sono racconti di vita che resiste e combatte. Sono volti e sono mani da stringere. Sono persone che hanno avuto paura e hanno scelto il coraggio. Sono storie da segnarsi e da ripetere. C'è tanto dolore e sconforto, ma anche tanta luce. C'è chi ti dice è possibile». I segni sono le linee tracciate tra di noi. «Tu ascolti, guardi e dici grazie e c'è chi dice grazie a te, che ti chiedi “perché, cos'ho fatto?”»; poi ci sono quegli sguardi che ti fanno capire che se se si sta insieme - e Libera ne è testimone glorioso - anche l'onnipotente e misteriosa mafia si può sconfiggere. E ti senti al posto giusto, “dalla parte giusta della vita”.
I segni sono quelli che si usano per formare parole e nomi. «I nomi delle imprese che non pagano il pizzo, i nomi delle persone che incontri, delle vie in cui passi, delle città in cui entri. La Sicilia è una terra promessa, che tra sole e mare ti indica una strada, quella verso la libertà. “Io ora posso tenere la testa alta e andare dove voglio”: se l'antimafia è una parola che all'inizio fa paura ora è un patto da stringere, un progetto da portare avanti; è quello per cui hai lottato e per cui “ora posso guardare mia figlia negli occhi ed essere fiero delle scelte che ho fatto, perché le ho fatte per lei”». I segni sono quelli dati.
I segni sono esempi. «Quelli che abbiamo trovato, quelli che abbiamo dato. La prova che un altro mondo è possibile. I segni sono sogni realizzati».
Tratto da: liberainformazione.org