di Luciano Mirone - 12 ottobre 2012
Egregio Giudice per le indagini preliminari di Viterbo,
Lei tra pochi giorni dovrà decidere se archiviare buona parte dell’indagine sulla misteriosa morte di Attilio Manca, l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) trovato cadavere a Viterbo il 12 febbraio 2004. E siamo certi che deciderà secondo coscienza, anche perché Lei, in questi otto anni, più che respingere per ben tre volte la richiesta di archiviazione che la Procura di Viterbo Le ha inoltrato, onestamente non avrebbe potuto fare.
Adesso siamo alla quarta richiesta: non di archiviazione del caso, ma di archiviazione della parola “mafia”, di legittimazione della parola “droga”, di legittimazione di un assunto molto discutibile portato avanti dalla Procura di Viterbo con una ostinazione degna di miglior causa: ovvero che Attilio Manca sia morto per eroina, malgrado la montagna di dubbi che sommerge questa tesi.
In pratica la Procura Le chiede di archiviare la posizione dei quattro barcellonesi indagati (un paio dei quali invischiati a vario titolo con Cosa nostra) e di rinviare a giudizio una pusher romana che avrebbe fornito ad Attilio la dose mortale di eroina.
Non sappiamo cosa succederà: se un’ulteriore ombra si addenserà su questa vicenda o se le indagini prenderanno direzioni diverse. Non vogliamo prevedere nulla.
Il problema semmai è a monte, nell’indagine condotta dalla Procura laziale in modo così anomalo da considerare eufemismo perfino la parola “superficialità”.
Mi permetto di invitarLa, Egregio Gip, qualora non lo avesse ancora fatto, a guardare (e soprattutto ad ascoltare) la conferenza stampa che il procuratore capo di Viterbo, Alberto Pazienti, e il sostituto procuratore Renzo Petroselli (titolare dell’inchiesta), hanno tenuto in occasione dell’ultima richiesta di archiviazione.
Una conferenza-stampa molto istruttiva, perché dagli stessi magistrati viene confermato, seppure indirettamente, quanto questo caso sia viziato da carenze investigative gravi, specie se si tiene conto che da qualche tempo all’interno del Palazzo di giustizia di Palermo comincia a fare capolino l’idea che davvero la morte di Attilio Manca potrebbe essere collegata con l’intervento alla prostata che nel 2003 l’urologo siciliano avrebbe eseguito segretamente a Marsiglia al boss Bernardo Provenzano (celatosi per l’occasione col falso nome di Gaspare Troia), e alla successiva assistenza che il chirurgo avrebbe fornito nel Lazio (e forse non solo nel Lazio) allo stesso boss.
Infatti ultimamente sta emergendo una circostanza clamorosa: che Bernardo Provenzano, dopo l’intervento a Marsiglia, abbia trascorso una parte del periodo post operatorio proprio nel viterbese, tra Bagnoregio e Civitella D’Agliano.
Un’ipotesi che i magistrati della Procura laziale, in conferenza stampa, liquidano con una risata: “Tramontata l’ipotesi Marsiglia, esce fuori l’ipotesi del Lazio”.
A parte il fatto che l’ipotesi Marsiglia non è mai tramontata, quella del Lazio è affiorata solo alcuni mesi fa. Le due ipotesi non si escludono, semmai si integrano.
Certo, Egregio Gip, non ci sono prove che dimostrino che Attilio Manca abbia davvero operato Provenzano, ma Lei ci insegna che le prove non cadono dal cielo, vanno cercate con pazienza, partendo dagli elementi di cui si è in possesso.
L’arresto di Cattafi
Ora, Signor Gip, si dà il caso che nelle ultime settimane sia stato confermato (con un arresto clamoroso) ciò che la famiglia Manca e pochi altri antimafiosi siciliani ripetono da anni: che l’avvocato Rosario Cattafi, potentissimo boss di Barcellona Pozzo di Gotto, potrebbe avere avuto un ruolo di primo piano nelle stragi del ’92 (soprattutto in quella di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta), nella Trattativa fra Stato e mafia, nonché in alcune operazioni finanziarie che hanno visto come protagonista Cosa nostra.
Sì, perché da tempo si ripete che Cattafi è il trait d’union fra i boss, i servizi segreti deviati, la politica affaristico-mafiosa e certi magistrati non proprio rispettosi dello Stato di diritto. Insomma un potente più potente degli stessi Riina e Provenzano.
Potrebbe uscire assolto o condannato, l’avvocato Cattafi, ma una sentenza non cambierebbe di una virgola una verità ormai incontrovertibile: i suoi legami con quelle entità.
Per caso è mai venuto in mente a qualcuno di codesta Procura di sapere per quale ragione due mafiosi del calibro di Nitto Santapaola e dello stesso Provenzano abbiano trascorso un pezzo della loro latitanza a Barcellona Pozzo di Gotto, o magari di sapere per quale ragione un altro super boss – Gerlando Alberti junior, sì, Signor Gip, quello che ha ammazzato la povera Graziella Campagna, una ragazzina di diciassette anni che ha avuto il torto di scoprire la vera identità di Alberti – sia stato tenuto nascosto per diverso tempo in quella zona, godendo delle incredibili protezioni di alti magistrati della Procura di Messina, che per decenni hanno insabbiato le indagini?
Ora, Egregio Gip, un fatto resta un fatto, ma tanti fatti diventano un contesto. E un delitto, perfino secondo un mediocre scrittore di libri gialli, va sempre inserito nel suo contesto. O no?
“Inoculazione volontaria”… Nel braccio sbagliato
Ma procediamo con ordine.
Secondo il procuratore Pazienti e il sostituto Petroselli, Attilio Manca sarebbe morto per overdose di eroina mediante “inoculazione volontaria”, mischiata ad un quantitativo di alcol e di tranquillanti.
“Inoculazione volontaria”, proprio così. Dov’è la prova della “volontarietà” dell’azione? Non c’è. O meglio, non l’abbiamo vista.
Anche perché c’è un problema grosso quanto una casa: il fatto che Attilio Manca la droga se la sarebbe “inoculata” nel braccio sbagliato, quello sinistro, dato che era un mancino puro. Orbene: dopo quasi un decennio, anche il “mancinismo puro” della vittima è stato messo in discussione dalla Procura di Viterbo, malgrado le tante conferme (di colleghi, di dipendenti dell’Asl, di amici, di familiari) dell’”uso esclusivo della mano sinistra da parte della vittima”.
Ascolti in conferenza stampa cosa dicono il Procuratore e il Sostituto: siccome Attilio Manca era un chirurgo, doveva per forza sapere utilizzare entrambe le mani. Secondo quale principio scientifico?
E allora, Egregio Gip, consenta di ricostruire la scena della morte, sia perché è giusto partire dai fatti, sia perché coloro che leggono questa storia per la prima volta possano comprenderla bene.
La scena della morte
Attilio Manca – in quel periodo in servizio all’ospedale “Belcolle” di Viterbo – viene trovato cadavere sul letto del suo appartamento la mattina del 12 febbraio 2004 con due buchi al braccio sinistro e – secondo la famiglia – con il setto nasale deviato, il volto tumefatto, una serie di ecchimosi in tutto il corpo, e un testicolo gonfio. Sotto il letto una pozza di sangue. Nell’appartamento un caldo asfissiante dato che i regolatori dei termosifoni sono posizionati al massimo da molte ore (non si sa da chi, tenuto conto che Attilio li regolava a temperature normali).
A qualche metro di distanza (nel bagno e in cucina) vengono rinvenute due siringhe con tappo salva ago ancora inserito, un pezzo del parquet del pavimento divelto, un peso da ginnastica rotto, la camicia e la cravatta della vittima poggiate su una sedia. Non vengono trovati i pantaloni, i boxer, i calzini, le scarpe e la giacca di Attilio, né vengono rinvenuti lacci emostatici e cucchiai sciogli eroina.
Sul tavolo del soggiorno vengono trovati anche degli attrezzi chirurgici che, secondo gli stessi familiari e gli amici più stretti della vittima, non erano mai stati visti nell’appartamento.
L’autopsia, condotta dalla dottoressa Danila Ranaletta, moglie del primario di Attilio, ha escluso sia le ecchimosi sul corpo, sia il setto nasale deviato, il volto tumefatto e le labbra gonfie. Una tesi che trova completamente d’accordo la Procura di Viterbo.
Secondo la famiglia Manca, invece, il medico del 118, intervenuto dopo la scoperta del cadavere, avrebbe riscontrato questi particolari e li avrebbe inseriti nel referto.
Come si vede, si tratta di due tesi del tutto contrapposte, che dovrebbero essere chiarite dalle foto del volto (mai pubblicate dai giornali e su internet).
Il giallo delle foto
Attualmente poche persone possiedono le foto del volto di Attilio da morto: probabilmente soltanto i magistrati di Viterbo, i legali dei Manca e i legali dei cinque attuali imputati. Dei familiari del medico, l’unico ad averle viste è il fratello Gianluca (chiamato pure a riconoscere il cadavere). Gianluca asserisce che si tratta di immagini raccapriccianti, talmente raccapriccianti da averne chiesto la non diffusione per evitare un ulteriore trauma ai genitori.
Per evitare un trauma a Gino e ad Angela Manca, precipitatisi a Viterbo dopo il decesso del figlio, fu consigliato bonariamente di non vedere la salma di Attilio. A dare il “consiglio bonario” fu il primario del reparto di Urologia dell’ospedale “Belcolle”, il prof. Rizzotto, colui che, secondo i Manca, in quelle prime ore spiegò loro che il figlio si era fracassato la faccia andando a sbattere contro il telecomando poggiato su una superficie morbida come il piumone. Peccato che dalle foto riprese da dietro (queste sì, diffuse e visibili) si veda il corpo di Attilio riverso sul letto, col telecomando sotto il braccio.
In ogni caso, dal consiglio di Rizzotto si deduce – a prescindere dalle foto – che il volto di Attilio non doveva essere proprio normale. La stessa Polizia di Viterbo, in quelle prime ore, a dire dei familiari dell’urologo, aveva sollevato seri dubbi sul movente della droga. Tutto cambiò nel giro di qualche ora.
Ma c’è da chiedersi: perché il prof. Rizzotto diede quel “consiglio bonario” ai Manca? Solo per un alto senso di umanità? Può darsi. Ma perché portò avanti una tesi inverosimile come quella del telecomando? Perché durante l’autopsia stazionava assieme ad Ugo Manca (cugino della vittima e perno di questa storia; ora vedremo perché) dietro la porta della moglie, mentre questa eseguiva l’esame autoptico sul corpo di Attilio? Perché la sollecitava a concludere in fretta l’autopsia? Perché diceva alla moglie che c’era l’esigenza immediata di consegnare il corpo alla famiglia Manca se la famiglia Manca, come sostiene, non aveva fatto alcuna premura? Perché nelle ore immediatamente successive teneva i contatti con la madre di Ugo Manca, che da Barcellona forniva e riceveva notizie? A che titolo?
Barcellona Pozzo di Gotto
Dai rilievi effettuati dalla Polizia scientifica, nell’alloggio di Attilio sono state rilevate cinque impronte, una del cugino Ugo Manca, e altre quattro non appartenenti a persone che la vittima era solita frequentare. Dunque, in quell’appartamento, delle persone estranee all’ambiente del medico, a parte il cugino, avrebbero lasciato le loro tracce nelle ultime ore di vita dell’urologo. A chi appartengono? Non si sa neanche questo.
Da tempo vengono condotte delle inchieste giornalistiche su questo caso. Da queste sono emersi dei fatti incontestabili.
1) Che Attilio Manca, malgrado i suoi 34 anni, era un luminare della chirurgia alla prostata, essendosi specializzato a Parigi, “patria” del sistema laparoscopico, tecnica rivoluzionaria e meno invasiva del tradizionale intervento chirurgico. 2) Che Francesco Pastoia, braccio destro di Bernardo Provenzano, poco prima di impiccarsi nel carcere di Modena (che altra strana coincidenza…), disse che il boss Corleonese era stato operato e assistito da un medico siciliano. 3) Che la cittadina di Attilio, Barcellona Pozzo di Gotto, non è una cittadina come tante, ma il centro nevralgico di una strategia dell’eversione che nel ’92 portò il boss Giuseppe Gullotti (mandante del delitto del giornalista Beppe Alfano) a recapitare direttamente a Giovanni Brusca (Corleonese come Bernardo Provenzano) il telecomando della strage di Capaci. 4) Che nello stesso periodo, sia Provenzano che il potente boss catanese Nitto Santapaola trascorrevano la loro latitanza proprio lì, a Barcellona Pozzo di Gotto. Protetti da chi? 5) Che il giornalista Beppe Alfano era stato ucciso perché aveva scoperto l’appartamento dove veniva nascosto Santapaola.
E allora, tenuto conto di questo contesto, chi può escludere che Attilio Manca – se davvero ha operato Provenzano – potrebbe avere scoperto gli stessi segreti di cui era venuto a conoscenza Beppe Alfano? Chi può escludere che il medico fosse venuto a capo di quella inconfessabile rete di complicità?
Anche perché, a quanto pare, alcune settimane prima di morire, il medico potrebbe avere confidato certe notizie alla persona sbagliata. Che non è di Viterbo, ma di Barcellona.
Cosa risponde in proposito la Procura di Viterbo? Che il giovane medico era un drogato e che i quattro barcellonesi indagati vanno prosciolti perché, a loro dire, “non c’entrano niente con questa storia”. Eppure c’è quell’impronta palmare di Ugo Manca, dalla quale si sarebbe potuti partire. Invece Ugo Manca dà la sua versione e viene tranquillamente creduto.
Ugo Manca è il perno – non l’unico ovviamente – attorno al quale ruota l’intera indagine.
Perché?
Il perno Ugo Manca
Condannato in primo grado nel processo “Mare nostrum” per traffico di stupefacenti, ma assolto in appello, Ugo Manca nelle ore immediatamente successive alla morte del cugino, dalla Sicilia si precipita a Viterbo per chiedere al magistrato titolare dell’indagine – a nome dei genitori e del fratello di Attilio, che però hanno categoricamente smentito – il dissequestro dell’appartamento. Perché? Nientemeno che per rivestire la salma. È un’ipotesi credibile?
Nel frattempo la madre di Ugo – secondo la testimonianza dei familiari di Attilio – oltre a tenere i contatti con il prof. Rizzotto, si affretta a chiamare un alto magistrato romano (ripetiamo: a che titolo? Per un’amicizia pregressa o per l’interessamento di qualche collega siciliano?) affinché questi possa intercedere presso la Procura di Viterbo per il dissequestro in tempi rapidi della casa. Alla fine l’appartamento non viene dissequestrato per la ferma opposizione del fratello e dei genitori di Attilio.
Ma è su quell’impronta lasciata sulla mattonella del bagno – in un luogo dove, secondo gli esperti più autorevoli, le tracce digitali tendono a distruggersi nel giro di qualche ora per la presenza di vapore acqueo – che Ugo Manca avrebbe dovuto dare spiegazioni più plausibili.
Lui, Ugo, dice che è stato davvero in quella casa, ma circa due mesi prima, quando si è recato a Viterbo per sottoporsi a un banalissimo intervento di varicocele. Chi è il chirurgo che lo opera? Attilio Manca. Incredibile. Lo stesso Attilio Manca che oggi (quando non può più difendersi perché è morto) nelle aule di giustizia e nelle interviste viene accusato dal cugino Ugo di essere stato un eroinomane, capace di usare tutt’e due le mani per drogarsi. E allora in questa storia ci sono delle cose che non tornano.
Ugo rischia gli organi genitali a causa di un cugino drogato? Scusi la volgarità, Signor Gip, ma è proprio il caso di dirlo, dato che un intervento di varicocele si fa agli organi genitali maschili. È un alibi convincente?
Perché rischiare tanto, se un intervento del genere Ugo può farlo agevolmente all’ospedale di Sant’Agata di Militello, dove presta servizio come dipendente amministrativo, o di Barcellona, o di Patti o di tanti altri nosocomi vicini? Ugo si fa duemila chilometri per recarsi a Viterbo per un’operazione così semplice? Anche questa versione non sembra per niente convincente.
Eppure, Signor Gip, sa cosa hanno detto in conferenza stampa i procuratori di Viterbo a proposito di Ugo Manca? Testuale: “Manca Ugo era in ottimi rapporti con il cugino Manca Attilio. Manca Ugo era di casa a Viterbo, in quanto punto di riferimento dei barcellonesi che dovevano farsi operare all’ospedale ‘Belcolle”.
È un aspetto che apre scenari inquietanti e che, in sostanza, conferma che ci troviamo di fronte a un caso che presenta troppe stranezze.
La prostata dell’estortore
Se da un lato la Procura laziale è portata a giustificare l’impronta palmare lasciata da Ugo Manca attraverso la storia dell’”assidua frequentazione tra cugini”, dall’altro emerge una circostanza inedita e oscura sul ruolo avuto da questo personaggio equivoco.
Sì, perché un conto è dire che Ugo contattava telefonicamente il cugino per mandare qualche barcellonese ad operarsi a Viterbo. Un altro è dire che lui a Viterbo “era di casa” per intercedere presso l’ospedale (solo con Attilio o con qualche altro medico?) per le cure alle quali dovevano sottoporsi i barcellonesi.
E qui entra in gioco un altro personaggio appartenente al mondo della mafia barcellonese. Anche lui – poco tempo prima – si reca nella città laziale per farsi operare da Attilio: si chiama Angelo Porcino, è stato condannato per estorsione, ed è uno dei quattro barcellonesi indagati per i quali la Procura laziale ha chiesto l’archiviazione.
A quanto pare ai magistrati di Viterbo non risulta neanche che Porcino – ufficialmente titolare di una sala giochi – abbia un cellulare. Dunque non si sa se questo tizio parli al telefono e con chi, se faccia uso dell’apparecchio di altri (eventualmente di chi), quali sono i contenuti dei suoi presunti colloqui telefonici soprattutto nel periodo in cui si è recato a Viterbo, e cosa abbia fatto realmente nella città laziale nei giorni della sua degenza. Non si sa praticamente nulla. Si sa solo che ha contattato Attilio – autonomamente o per mezzo di Ugo? – per un intervento alla prostata (lo stesso, guarda caso, al quale si è sottoposto Provenzano).
Non sappiamo se Porcino c’entri qualcosa in questa vicenda, però sia in lui che in Ugo Manca si riassumono due incredibili paradigmi: l’appartenenza a un mondo che si spinge fino a Viterbo per farsi curare da un medico bravissimo (ma “drogato”), e il modo di condurre le indagini da parte degli investigatori laziali.
Ma quel che appare paradossale è che non si sa neppure chi siano gli altri barcellonesi (ripetiamo: solo barcellonesi?) che Ugo Manca avrebbe portato a Viterbo per farsi operare. Magari i magistrati della Procura lo sanno, ma per riservatezza non lo dicono. Eppure in conferenza stampa hanno dato la sensazione di annaspare.
Perché se dovesse risultare che Ugo era il punto di riferimento delle operazioni e delle cure cui si sottoponeva un determinato mondo, il quadro potrebbe cambiare notevolmente. C’entra Provenzano con quel mondo barcellonese con il quale era in stretto contatto?
Ma ipotizziamo pure che Provenzano non c’entri assolutamente nulla con questa storia. Ipotizziamo che si tratti di semplici congetture.
Resta quel mondo poco scrutato dai magistrati laziali, collegato con Viterbo attraverso la figura di Ugo Manca, che potrebbe avere avuto l’esigenza di rivolgersi a un grande medico originario della stessa città per risolvere “privatamente” certi problemi di salute, stando lontano dai riflettori dell’isola. Ipotesi? Può darsi. Ma la storia della mafia è piena di casi del genere. Che proprio per questo non vanno mai sottovalutati.
L’improvvisa comparsa degli attrezzi per le operazioni chirurgiche trovati a casa di Attilio è casuale? Non lo sappiamo. Se è casuale deve essere spiegato concretamente perché. Se è legata a qualcosa di inconfessabile, in quell’appartamento, la sera dell’11 febbraio 2004 – nelle ore che hanno preceduto la morte di Attilio – potrebbe essere accaduto di tutto. Anche perché, a parte la circostanza del volto sfigurato e del testicolo gonfio – che la Procura laziale smentisce – c’è da chiarire la circostanza del parquet divelto, del peso da ginnastica rotto, di alcuni indumenti della vittima stranamente introvabili, e tanto altro che adesso vedremo.
Un eroinomane… controllato
Il giovane medico, secondo Pazienti e Petroselli, si faceva di eroina ma non era un tossicodipendente. Si drogava, a loro dire, solo in certi momenti, magari quando era depresso, ma l’eroina riusciva a tenerla sotto controllo, senza subirne dipendenza. L’eroina? Sotto controllo? Senza subirne dipendenza?
I familiari smentiscono categoricamente che Attilio si drogasse, qualche spinello al tempo del liceo, poi basta. La madre sostiene che beveva un bicchiere di vino ogni tanto, a tavola nei fine settimana, ma mai alla vigilia di un intervento chirurgico, in sala operatoria voleva essere lucido. I genitori, si sa, sono obnubilati da dolore, quindi sono portati a raccontare balle, non lo fanno per male… certo. E i colleghi, e il personale dell’ospedale “Belcolle”, e gli amici di Viterbo? Anche loro raccontano un sacco di balle. Vuoi mettere queste testimonianze con quelle dei barcellonesi? Non scherziamo. Ora ci arriviamo ai barcellonesi.
Quindi Attilio Manca era un eroinomane ma non tanto, o meglio, era eroinomane solo in certi momenti. In che senso? Beh… Qui onestamente le contraddizioni sono tali e tante che si fa fatica a venirne fuori.
Riavvolgiamo il nastro… Nei primi anni le carte processuali ci dicono che l’urologo è morto per suicidio da overdose. Adesso ci dicono che è morto per overdose senza suicidio.
Nell’ultima trance dell’indagine la parola “suicidio” misteriosamente scompare, resta solo la parola drogato. Dunque Attilio Manca, secondo i magistrati, è sì un drogato, ma “controllato”, nel senso che non può fare a meno del buco, ma vi ricorre ogni tanto, magari il giorno prima di fare un delicato intervento chirurgico, tanto per tenersi in forma. Infatti, come previsto dal programma del reparto di Urologia dell’ospedale “Belcolle”, Attilio doveva operare la mattina del 12 febbraio, quando è stato trovato morto.
Però siccome è medico sa benissimo che quell’intruglio micidiale di eroina, di alcol e di tranquillanti può portarlo alla morte, ma siccome lo sballo è sballo, più cose ci mette dentro più si assicura l’effetto psichedelico. E così mentre l’intruglio mortale circola nelle sue vene, gli salta in mente una cosa che può cambiare la sua vita: rimettere i tappi negli aghi delle siringhe. Strafatto si precipita in cucina e poi nel bagno, barcolla ma deve portare a termine la missione, senza ovviamente lasciare impronte sulle siringhe, poi torna in camera da letto, crolla sul piumone e si fracassa il volto sbattendolo sul telecomando.
Il sangue per terra è causato dall’edema polmonare scatenatosi per l’overdose, mica perché è stato pestato. Questa la tesi ufficiale.
Quando viene ritrovato morto, nel suo braccio vengono rinvenuti due buchi (gli unici in tutto il corpo). Su questo la Procura sostiene una tesi per noi del tutto nuova: che sarebbero stati praticati in tempi diversi. Ce ne sarebbe uno recente e uno più vecchio. Questo secondo Pazienti e Petroselli dimostrerebbe tre cose: che Attilio si drogava, che quella sera non era la prima volta che si drogava, e che era un drogato “controllato”. Elementare, Watson.
Lo scandalo delle impronte digitali
I magistrati non hanno spiegato per quale ragione – malgrado le ripetute richieste della famiglia Manca e dell’avvocato Repici – per ben otto anni si sono rifiutati di rilevare le impronte digitali sulle due siringhe.
In conferenza stampa hanno dichiarato che siccome le siringhe erano troppo piccole (immaginiamo delle normali siringhe da insulina: sono proprio così piccole?), la Procura non ha ritenuto di ordinare il rilevamento delle impronte perché non si sarebbe trovato nulla. È possibile una cosa del genere con i sofisticati mezzi scientifici di cui dispongono le Forze di polizia?
Soltanto poco tempo fa – dopo una precisa richiesta del Gip – le analisi sulle siringhe sono state eseguite. Su una non è stato trovato nulla, sull’altra una labile traccia non assolutamente comparabile a un’impronta, quindi da non considerare valida come prova.
Dalle analisi effettuate non è stato accertato né che Attilio si sia drogato, né che altri lo abbiano drogato forzatamente per simulare una morte per overdose. Non esiste alcuna prova sia nell’un senso che nell’altro. Però i magistrati affermano che in una delle sue siringhe è stata rinvenuta una minuscola traccia di eroina.
E così per la prima volta abbiamo sentito parlare di esame tricologico. I giudici hanno garbatamente spiegato che trattasi di analisi sul capello della vittima per accertare se questa abbia assunto degli stupefacenti. Ebbene: ci è stato detto che sì, anche nei capelli di Attilio sono state trovate delle tracce di stupefacenti. Ecco la prova “inconfutabile”.
A parte il fatto che non è stato specificato di quali stupefacenti si tratta, non si comprende perché questo esame tricologico sia saltato fuori dopo otto anni, senza che alla famiglia Manca sia stato notificato nulla, e senza che le sia stata data la possibilità di nominare un perito di parte.
Però siccome nella siringa è stata trovata eroina, siccome “è provato” che “Manca Attilio si sia inoculato volontariamente l’eroina nel braccio sinistro”, siccome i vicini di casa non hanno sentito rumori, Manca Attilio è morto drogato. Stop.
La Corda fratres
La droga, secondo i magistrati laziali, sarebbe stata una pusher romana a fornirgliela, l’unica persona, tra i cinque indagati, su cui la Procura chiede il rinvio a giudizio.
Evidentemente ci saranno prove inoppugnabili per affermare con sicurezza un assunto del genere, In conferenza stampa è stato detto che la pusher capitolina riforniva di stupefacenti il “gruppo” barcellonese presente nel Lazio. Il “gruppo barcellonese”. Di cui Attilio avrebbe fatto parte. Formato da chi?
Ecco allora che Barcellona torna alla ribalta, non come epicentro di una criminalità organizzata che ha contatti non solo con il “gotha” di Cosa nostra siciliana, della ‘ndrangheta calabrese e della camorra campana, ma con altissimi magistrati come il procuratore generale di Messina Franco Antonio Cassata – residente da sempre a Barcellona, ricadente nello stesso Distretto giudiziario messinese – oggi sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa; con un ex ministro come Domenico Nania (oggi vice presidente del Senato), con l’ex sindaco di Barcellona Candeloro Nania (cugino dell’ex ministro), con l’ex presidente della Provincia di Messina Giuseppe Buzzanca, e con tanti altri autorevoli personaggi.
Per la Procura di Viterbo, Barcellona non torna alla ribalta per questo. Torna alla ribalta per le presunte pratiche a base di droga da parte di Attilio e del “gruppo” barcellonese presente nel Lazio. Tutto qui.
Ai magistrati di Viterbo sfuggono evidentemente dei tasselli importanti per completare il mosaico.
Eppure tante volte è stato scritto – e i procuratori sicuramente lo hanno letto – che in quella cittadina della lontana Sicilia esiste un circolo paramassonico denominato “Corda fratres”, che occupa un intero primo piano di un palazzo del centro.
Chi non è di Barcellona pensa al classico circolo di paese, dove si gioca a carambola o a carte, si legge il giornale, si conversa amabilmente di corna e di politica, si organizzano dotte conferenze di letteratura e di arte. La “Corda fratres” è anche questo, ma è molto altro. Pur essendo frequentata anche da gente perbene, è un centro di potere dove i boss Gullotti e Cattafi convivono alla luce del sole col magistrato Cassata e con l’ex ministro Nania, con il cugino sindaco e col presidente della Provincia. Un livello superiore, che bypassa il livello medio delle persone perbene e decide il destino della città.
Non c’è giovane di Barcellona che, conseguita la laurea, non si iscriva alla “Corda fratres”. Sicuramente per prestigio, ma anche per “sistemarsi” professionalmente attraverso le potenti aderenze di cui dispongono i personaggi più in vista.
Come si spiega che il magistrato Franco Cassata, vero animatore del Circolo – pur essendo da anni oggetto di durissime interrogazioni parlamentari, di inchieste giudiziarie e giornalistiche, pur essendo chiacchierato per le sue amicizie discutibili – diventa Procuratore generale di Messina? Solo oggi, messo sotto inchiesta dalla Procura di Reggio Calabria con accuse gravissime, al Csm si parla di un suo trasferimento per incompatibilità ambientale. Solo oggi, cioè quando Cassata è alla soglia della pensione.
Come si spiega il fatto che diverse testimonianze rese all’Autorità giudiziaria contro Attilio Manca provengano dall’ambiente della “Corda fratres” fortemente intossicato da certi condizionamenti? Testimonianze che cozzano con quelle di Viterbo, che paiono di segno completamente opposto.
E qui per dovere di cronaca bisogna dire che i rapporti “altolocati” intessuti all’interno di quel sodalizio non si fermano qui. C’è l’amicizia stretta fra Ugo Manca (e la sua famiglia) con il giudice Cassata, l’amicizia stretta fra Ugo Manca (e la sua famiglia) con Rosario Cattafi, l’amicizia stretta fra queste variegate entità e parecchia gente recatasi dai magistrati a testimoniare contro quel “drogato di Attilio Manca”. Significa qualcosa o pensiamo che i contesti non contino nulla?
Le telefonate scomparse
Ma ipotizziamo pure, Signor Gip, che Attilio fosse davvero un drogato. Questo spiega a tutti i costi una morte per overdose? Questo significa che i magistrati non abbiano il dovere di indagare a trecentosessanta gradi? Questo significa non considerare anche l’ipotesi dell’omicidio, magari tenendo conto che la scena del presunto delitto potrebbe essere stata camuffata?
Anche ammesso che Attilio fosse stato un drogato, non sarebbe stata utile una maggiore prudenza sulla dinamica della morte, dato che diversi elementi ci portano a ritenere che quella sera, nella casa di Attilio Manca, potrebbe esserci stato uno scontro violento?
Non è detto che sia così, ma non può essere escluso a priori. Eppure la Procura di Viterbo lo ha escluso dicendo “Non ci sono elementi”. Li ha cercati?
Fin dall’inizio si è sposata la tesi della morte per overdose “volontaria”, e non ci si è spostati di un millimetro.
Restano poi da chiarire i gialli di almeno due telefonate intercorse fra Attilio e la sua famiglia, che secondo il legale dei Manca non risultano nei tabulati telefonici.
La prima telefonata proviene dalla Francia nello stesso periodo in cui viene operato Provenzano. In quel caso Attilio dice alla madre che deve assistere a un intervento. A quale? Non si sa.
Il procuratore Pazienti ha affermato che dai controlli effettuati, il dottor Manca in quel periodo risultava in servizio al “Belcolle”. Come se con un aereo non è facile raggiungere la Francia in poche ore anche nei fine settimana o nei giorni liberi.
La seconda telefonata riguarda l’ultimo colloquio fra Attilio e la madre, intercorso il giorno prima del ritrovamento del cadavere. Il medico – chissà da quale luogo e in quale situazione, ma sicuramente provato – avrebbe lanciato dei messaggi in codice in cui avrebbe cercato di dire di cercare la verità proprio a Barcellona Pozzo di Gotto.
Congetture anche queste, certo, ma ci chiediamo se è vero che nei tabulati quelle due telefonate non risultano. I procuratori hanno detto che quelle telefonate non ci sono mai state. Ne prendiamo atto.
Quel che appare certo è che ci troviamo di fronte a tanti, troppi, “buchi neri” che Lei, Egregio Gip, è chiamato a chiarire attraverso un compito che si prospetta assai delicato. Buon lavoro.
Tratto da: linformazione.eu