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borsellino-napolitano-mancinoColloquio con Salvatore Borsellino
di Rossella Guadagnini - 9 ottobre 2012

In attesa dell’udienza preliminare del Gup fissata per il 29 ottobre sull’indagine della procura di Palermo, Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, magistrato ucciso 20 anni fa, avanza una richiesta al Capo dello Stato in nome della trasparenza istituzionale e come segno di determinazione nel ricercare la verità.

Com'è il cuore segreto dello Stato a guardarci dentro? Oscuro, terribile, potente? Per Elias Canetti il segreto è il cuore del potere: “Il potente, che si serve del proprio segreto, lo conosce con esattezza e sa bene apprezzarne l’importanza nelle varie circostanze. Egli sa a che cosa mira se vuole ottenere qualcosa, e sa anche quale dei suoi collaboratori impiegare nell’agguato. Egli ha molti segreti poiché vuole molto, e li combina in un sistema entro il quale si preservano a vicenda”.

Anche la storia dell’Italia repubblicana è attraversata da molti, troppi, segreti. E da altrettanti poteri invisibili. Alcuni, come le mafie e le camorre, hanno radici profonde nella nostra società. Altri, come i servizi segreti deviati, sono cresciuti all’ombra dello Stato, all’interno di un “doppio Stato”, in una stagione segnata dallo stragismo e da forme opposte di terrorismo, dalla corruzione politica e dalle menzogne dei poteri forti, pubblici e privati. Tuttavia, poiché il sistema democratico esige la trasparenza del potere, come si fa a controllare i controllori? “Se non si riuscirà a trovare una risposta adeguata a questa domanda – ha osservato in passato Norberto Bobbio – la democrazia, come avvento del governo visibile, è perduta”. Rendere il governo dello Stato visibile sempre. A questo puntiamo.

Il 29 ottobre si terrà l'udienza preliminare del Gup, Piergiorgio Morosini, per decidere la sorte dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, condotta dalla procura di Palermo. In specie sul rinvio a giudizio di 12 imputati, alcuni boss mafiosi come Riina, Bagarella e Brusca, altri esponenti delle istituzioni come Mancino, Mannino, Dell’Utri.

Salvatore Borsellino, potrebbe essere il momento in cui arriva un primo lampo di luce sull'uccisione di suo fratello Paolo, avvenuta il 19 luglio 1992 in via D’Amelio?
Di lampi di luce, nel corso di questa istruttoria, ce ne sono stati molti. Finalmente si è cominciato a parlare della trattativa Stato-mafia, visto che – come oggi è emerso – ne erano al corrente molti personaggi anche istituzionali, come Luciano Violante e Claudio Martelli. A mio avviso è stata il motivo dell’accelerazione dell’attentato a Paolo. L’avrebbero ucciso lo stesso – la cupola l’aveva già condannato – ma non così presto. Non conveniva neanche alla mafia fare un’altra strage a breve distanza, appena 56 giorni dopo quella di Capaci. Questa trattativa, di cui Paolo è venuto a conoscenza dopo l’uccisione di Giovanni Falcone del 23 maggio 1992, è stata la causa della sua morte: lui costituiva un ostacolo. La veemenza con cui si è opposto ad essa ha provocato la necessità di eliminarlo e anche in fretta. Conoscendo bene mio fratello so che avrebbe portato tutto all’attenzione dell’opinione pubblica. Eliminandolo, inoltre, si è impedito che deponesse alla procura di Caltanissetta, come aveva chiesto più volte. Di Falcone con cui lavorava a stretto contatto aveva letto gli appunti, raccolto se non le ultime parole gli ultimi sguardi, visto che gli morì quasi fra le braccia. Eppure non fu mai chiamato a deporre dai magistrati, ai quali avrebbe potuto fornire elementi utili.

Qual è la sua ricostruzione degli avvenimenti?
Secondo me della trattativa Paolo è venuto a conoscenza il 1 luglio del ‘92 nello studio di Nicola Mancino. Un incontro che l’ex ministro dell’Interno, ora accusato di falsa testimonianza, dice di non ricordare. Ma l’appuntamento è annotato nella piccola agenda grigia, in cui mio fratello segnava le spese del giorno, i posti dove era stato e, ora per ora, gli incontri che aveva avuto. Contrariamente a quella rossa non è sparita. Lì c’è il riassunto della giornata; lui, che era molto meticoloso, la compilava la sera. Il 1 luglio nel tardo pomeriggio c’e’ scritto “Mancino”. La cosa collima, tra l’altro, con la testimonianza di Gaspare Mutolo, collaboratore di giustizia che Paolo stava interrogando a Roma alla Dia. “Mi ha telefonato il ministro”, gli dice mio fratello, poi si allontana e quando torna appare ‘estremamente nervoso’. Ecco, è successo qualcosa nello studio del Viminale: Mancino lo nega ma in una maniera assolutamente non credibile. Era il giorno del suo insediamento, dal momento che era stato chiamato a sostituire il ministro Vincenzo Scotti. Mancino, tra l’altro, sostiene di non poter rammentare l’incontro con Borsellino perché dice che allora non lo conosceva fisicamente. Ma chi, in quella data, non conosceva l’aspetto di mio fratello?

Cosa è accaduto poi?
C’è stata una congiura del silenzio: per anni nessuno ne ha parlato. Quando nel 2007 scrissi una lettera aperta intitola “19 luglio 1992, una strage di Stato” venni preso per pazzo. Pochi giornali la pubblicarono, ma sulla rete si propagò come un virus. Allora venne considerata come un’ipotesi fantasiosa e assurda, fin quando nel 2009 due collaboratori di giustizia, Gaspare Spatuzza e Massimo Ciacimino, figlio del boss Vito Ciancimino, raccontarono di legami della cupola al tempo delle stragi con personaggi politici e dell’imprenditoria. In principio si è cominciato a parlare di una ‘fantomatica trattativa’, quindi di una ‘presunta trattativa’, ora di una trattativa senza aggettivi che ne mettano in dubbio l’autenticità. Ma, intanto, la procura di Palermo ha cominciato a occuparsene, è andata avanti nelle indagini, tanto è vero che è venuto fuori che questa trattativa c’è stata e ce ne sono tracce, come l’abolizione del 41 bis, che l’ex ministro di Giustizia, Giovanni Conso, dice di aver deciso autonomamente.

Verità storica e verità giudiziaria sono due cose diverse, ma non possono essere troppo distanti tra loro.

Si vedono tanti segnali degli ostacoli frapposti sulla strada della verità: gli attacchi concentrici contro la procura di Palermo, contro i giudici Antonio Ingroia e Nino Di Matteo; esiste una spinta affinché si tolgano inchieste a Palermo e si affidino a Caltanissetta, forse perché questi magistrati di Palermo non hanno guardato in faccia a nessuno, forse lì sono più garantisti. Caltanissetta ha fatto un ottimo lavoro per individuare i depistaggi; poi, però, quando si era parlato di coinvolgimento dei servizi, non si è approdati più a nulla. Forse non si sono trovate prove sufficienti, forse da questo qualcuno ha desunto che, a Caltanissetta, i magistrati potrebbero essere più cauti di quelli di Palermo. La cosa vergognosa è il modo in cui è stato fermato Roberto Scarpinato, procuratore generale di Caltanissetta che doveva passare a Palermo, prendendo a pretesto la lettera che ha scritto il 19 luglio scorso, in occasione della commemorazione della strage di via D’Amelio. Scarpinato quelle cose le aveva dette altre volte, le aveva scritte nei libri. Si attaccano dei magistrati quando dicono cose in cui anche un semplice cittadino come me avverte il senso dello Stato. Non tanto come fratello di Paolo Borsellino, ma come italiano, io resto allibito.

Si è parlato molto del cosiddetto ‘terzo livello. Lei che idea si è fatto? Esiste una pianificazione, una trama complessa che lega fatti e persone in apparenza distanti tra loro?
Riguardo al terzo livello il problema è capire come si configura. E’ molto più pericoloso sconfiggere chi con la mafia collude, collabora. Tutto quello che c’è, insomma, attorno alla criminalità organizzata, perché la sola mano militare della mafia potrebbe essere sconfitta in breve. Sicuramente ci sono connivenze e interessi che hanno fatto sì che questo fenomeno si sia globalizzato e sia divenuto quasi indistruttibile. Nell’assassinio di Paolo e nella strage di Capaci ci sono degli elementi esterni: il Semtex è un esplosivo militare che è stato usato anche in altre stragi di Stato in Italia, da Piazza della Loggia all’Italicus. C’è il riconoscimento da parte di Gaspare Spatuzza di una persona che avrebbe fatto da soprintendente alla preparazione dell’autobomba, il depistaggio, la sparizione dell’agenda rossa con lo stemma dell’Arma dei Carabinieri in copertina. C’è insomma una volontà di non far avanzare certe indagini: è stato ‘inserito’ nel processo il falso pentito Vincenzo Scarantino, che pare essere stato imbeccato da Arnaldo La Barbera (morto nel 2002 n.d.r.) che dirigeva le indagini. A cosa è servito? Probabilmente a non indirizzare le indagini verso la famiglia dei Graviano che ha preparato l’attentato, visto che altrimenti si sarebbe potuti arrivare a Marcello Dell’Utri e anche più in alto. Tutti depistaggi messi in atto volutamente per allontare i giudici dalla verità. Ora a 20 anni di distanza, le persone dicono di non ricordare, la memoria si fa confusa.

Le polemiche che hanno accompagnato l'inchiesta sulla trattativa non rischiano di rendere tutta la questione un problema solo giudiziario, mentre la spinta all'accertamento della verità su fatti tanto gravi dovrebbe coinvolgere le istituzioni e il Paese?
Sinceramente mi sarei aspettato tutt’altro rispetto a quanto successo. Mi sarei aspettato dal presidente della Repubblica una telefonata di incoraggiamento ai magistrati a proseguire le indagini. Invece, con sconcerto e dolore, ho dovuto leggere di intercettazioni in cui un imputato di questo processo, Nicola Mancino, si rivolge al consigliere giuridico del Capo dello Stato, Loris D’Ambrosio (scomparso il 26 luglio 2012 n.d.r.), e il consigliere gli assicura la benevolenza da parte di Napolitano e il suo interesse. C’è stata una fretta secondo me anomala da parte del presidente della Repubblica nel voler sottoporre alla Consulta un quesito che, di fatto, pone un ostacolo sulla strada delle indagini e della verità. Lo stesso procurato aggiunto, Antonio Ingroia, ha detto che si è arrivati nell’anticamera della verità. Ma la porta che conduce dentro qualcuno non la vuol far aprire.

Come vive la condizione di parente di una vittima della mafia, che da 20 anni aspetta delle risposte?
Quello che faccio e continuo a fare, cioè lottare per verità e la giustizia, lo faccio non come fratello di Paolo Borsellino, ma come italiano. Noi cittadini non possiamo accettare il sospetto, ed ora è ben più di un sospetto, che le fondamenta della Seconda Repubblica in cui viviamo, siano state edificate col sangue. Sono convinto che la stagione delle stragi sia stata propedeutica a quello che è accaduto negli ultimi 20 anni nel nostro Paese. Dopo che Paolo è stato ucciso, tra il ’92 e il ’97, andavo in tutte le città italiane a parlarne, rispondendo all’appello di mia madre, che l’aveva chiesto a mia sorella e me. Poi dal ‘97 al 2007 avevo perso la speranza. Sono stato per 10 anni in completo silenzio, assalito dallo scoramento e dalla sfiducia. Dal 2007 ho ricominciato a impegnarmi e non mi fermerò più, finché avrò vita. Io pretendo verità e giustizia e, per questo, lotterò fino all’ultimo giorno della mia esistenza.

Oggi ha fiducia nella giustizia?

Sì, ma ho paura della politica che, in qualche maniera, vuol mettere degli ostacoli sul fronte della giustizia. Sono anni che si parla di abolizione delle intercettazioni, è in atto un attacco all’indipendenza della magistratura. Penso che occorrerebbe lasciare i giudici liberi di lavorare, senza dire loro che sono “geneticamente diversi” o “dei malati mentali”. Non deve accadere che quando le indagini si avvicinano ai centri del potere, queste persone vengono screditate, le loro inchieste avocate. I magistrati li continuano a uccidere anche oggi, anche dopo l’omicidio di Paolo Borsellino. Magari in maniera diversa. Ci sono forme peggiori della morte.

Quali sono le prossime iniziative del Movimento Agende Rosse in vista del 29 ottobre?
Io mi sono già costituito come parte civile al processo di Caltanissetta. A Palermo farò una doppia richiesta, di costituirmi parte civile sia come fratello di Paolo Borsellino, che come Movimento delle Agende Rosse. Il 29 ottobre ci sarà un sit-in davanti al carcere Pagliarelli di Palermo, mentre io sarò in aula con il mio avvocato. Stiamo organizzando delle manifestazioni analoghe a Roma, a Cagliari, a Lecce. Spero che prima del 29 ottobre queste iniziative si moltiplichino in tutto il Paese.

Come definirebbe la speranza?
Nell’ultimo giorno della sua vita, in una lettera che ha scritto alle 5 del mattino indirizzata ad alcuni studenti, Paolo ha detto di essere ‘ottimista’. Mi sono chiesto tante volte come poteva parlare di ottimismo e speranza, dopo aver saputo che era arrivato a Palermo il carico di esplosivo che serviva per lui. Paolo aveva capito cos’è la speranza. Io ho impiegato tanti anni per capirlo. La sua speranza erano i giovani, quei giovani che quando saranno adulti avranno più forza di combattere di quanta la nostra generazione ne abbia avuto. Ho capito che devo combattere non perché io possa vedere la verità, ma perché questi giovani possano vederla e vivere in un Paese diverso. Sono sicuro che lo faranno e combatteranno per questo. So che quando io non parlerò più ci saranno loro che continueranno a gridare la mia stessa voglia di verità e giustizia. E, a questo punto, credo che la verità verrà a galla, anche se forse io non la vedrò, ma questi giovani la vedranno e anche i loro figli. E, finalmente, nel nostro Paese si potrà sentire quel “fresco profumo di libertà” di cui parlava Paolo.

Il cuore dello Stato talvolta sembra oscuro a guardarci dentro. Come dovrebbe essere il rapporto tra cittadini e istituzioni?
Dovrebbe essere chiaro, di trasparenza. Le istituzioni dovrebbero essere al servizio dei cittadini. Spesso si parla di vilipendio alle istituzioni: penso che il più grosso vilipendio sia che persone indegne occupino posti di rilievo negli apparati statali. Io non mi aspetto che il capo dello Stato metta degli ostacoli sulla strada della verità e della giustizia. Mi aspetto che non solo auspichi nelle sue parole la verità e la giustizia, ma che tutti i suoi atti vadano nella direzione espressa dai suoi auspici.

Se potesse rivolgersi direttamente al presidente Napolitano cosa gli direbbe?
Gli direi che, se vuole dissipare quegli interrogativi che sicuramente si sono posti in tanti nel Paese, renda pubbliche quelle intercettazioni, per cui invece è stato avviato un quesito alla Consulta. Tra l’altro, i magistrati di Palermo dicono che non c’è nulla di penalmente rilevante. Dunque, non comprendo l’ansia di non fare venire fuori queste intercettazioni. Credo che un atto del genere contribuirebbe a chiarire la verità, ad aumentare la fiducia nelle istituzioni. Da parte mia ho chiesto che quelle intercettazioni vengano acquisite anche dalla procura di Caltanissetta: chi ci dice, infatti, che per quanto irrilevanti nell’indagine di Palermo, lo siano anche per quella di Caltanissetta? Inoltre, dopo tutto il clamore che c’è stato intorno alla vicenda, temo che in qualsiasi cittadino resti il dubbio che in esse possa esserci qualcosa che non deve essere, per qualche motivo, reso pubblico. E’ fondamentale che questi dubbi siano dissipati proprio per via di quella fiducia nelle istituzioni di cui parlavo. Il presidente della Repubblica potrebbe ottenere tutto ciò semplicemente fermando il conflitto davanti alla Consulta e rendendole pubbliche.

Tratto da: temi.repubblica.it/micromega-online

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