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patti-carmeloCarmelo Patti era uno degli uomini più ricchi d’Italia, ma secondo i giudici era solo un prestanome. Del superpadrino latitante.
di Enrico Deaglio - 27 luglio 2012
Palermo. È uno degli uomini più ricchi d’Italia e non lo sapevamo. È stato protagonista di una delle più affascinanti success story italiane (il manovale che diventa tycoon), e ora è accusato di essere, semplicemente, il prestanome del capomafia superlatitante Matteo Messina Denaro. Ha un patrimonio di 5 miliardi di euro (avete letto bene: miliardi, non milioni) che potrebbe essergli confiscato.

Con quei soldi Mario Monti ed Enrico Bondi sistemerebbero non pochi dei loro (e nostri) problemi immediati. Stiano parlando della biografia decisamente avventurosa del cavalier Carmelo Patti, nato poverissimo a Castelvetrano, in provincia di Trapani nel 1934, e diventato, nel corso della sua lunga vita, un fondamentale fornitore Fiat, un business partner della stessa, dell’Ifi e dell’Istituto San Paolo, il padrone della Valtur (la più grande industria turistica italiana), il proprietario di altre cinquanta società, il Grande Saggio siciliano come lo si vede solo nei film e nei romanzi: elegante, generoso e potente amico dei potenti, ma non dimentico della sua terra e della sua famiglia. Un self made man, fiero della sua figlia maggiore, Maria Concetta Patti, amministratrice delegata che gestisce i 15 mila posti letto della Valtur; geniale imprenditrice, bella e carismatica, tanto da battere, nelle speciali classifiche di categoria, la pur quotata Emma Marcegaglia. La favola nata a Castelvetrano è ora, purtroppo, finita in uno dei più gravi dissesti finanziari nazionali: Valtur, con i suoi venti villaggi vacanza, è in amministrazione controllata per malagestione, sperperi e ruberie. Una situazione non dissimile al crack delle banche di Michele Sindona, con l’ombra lunga (come allora) di un superboss della mafia a incutere paura, un tentativo estremo del cavalier Patti di far ripianare al governo i suoi debiti, lo schieramento di una legione di avvocati e cospicue intimidazioni contro i magistrati che devono decidere sulla confisca, per mafia, di uno dei più grandi patrimoni italiani. L’Oro dei Patti è stato ricostruito in anni di lavoro da un’indagine della Direzione investigativa antimafia (Dia), firmata dal generale di corpo d’armata Antonio Girone; 1.600 pagine per la spettacolare radio grafia dell’impero economico del cavaliere. O meglio, secondo la Dia, non suo, ma di un Grande Padrino. La Valtur campeggia, ovviamente; ma poi ci sono società per il cablaggio, per ristrutturazioni edilizie, costruzione di ponteggi e infissi, immobiliari, alberghi, olio d’oliva, finanziarie, la gestione dell’aeroporto di Palermo, cementifici, terreni, abitazioni, barche. Per il valore di cinque miliardi di euro con una «inquietante sperequazione tra redditi e investimenti». Come si sa, a nessuno (e ai ricchi in particolare) piace che gli si facciano i conti in tasca. Però in democrazia le notizie circolano e quindi sono pubbliche le graduatorie. Patti, con i suoi cinque miliardi di patrimonio, sarebbe nei top five italiani, alla pari con Berlusconi e appena sotto Michele Ferrero (Nutella e altro, nettamente il primo), Alessandro Del Vecchio (Luxottica), la famiglia Benetton e Giorgio Armani. Ma questi cinque miliardi sarebbero, in effetti, di proprietà di Matteo Messina Denaro. Il quale appare, tra i capi della mafia di tutti i tempi, il più moderno e con una buona diversificazione del portafoglio. Appena un anno fa sono stati confiscati a tale Giuseppe Grigoli, un ex venditore di detersivi di Agrigento, le quote dei supermercati Despar della Sicilia occidentale. Valore? Un miliardo di euro. Anche questi erano di Matteo. Poco dopo, è toccato a un vecchietto di nome Rosario Cascio (una vecchia lenza di Cosa Nostra) vedersi sequestrati cinquecento milioni e un bel mazzetto di società cementifere. Anche questi erano di Matteo. Poi c’è una catena di centri commerciali sparsi in mezza Sicilia. Sommando e calcolando per difetto, Matteo Messina Denaro (cinquant’anni, da venti latitante) sarebbe titolare, se non del primo, probabilmente del secondo patrimonio italiano, spaziando tra industria turistica, componentistica per automobili, edilizia e grande distribuzione. Speriamo che Moody’s non lo venga a sapere, se no ci bacchetta di nuovo. E speriamo non lo vengano a sapere neanche il Fondo monetario internazionale o la Banca centrale europea, arcigne istituzioni alle quali ci rivolgiamo quando siamo nei guai. Potrebbero risponderci, «Fateveli dare da Matteo». E non avrebbero tutti i torti. Carmelo Patti crebbe a Castelvetrano, misero villaggio dove, nell’infuocato luglio 1950, terminò la sua avventura il bandito Salvatore Giuliano, cadavere inquietante in un desolato cortile. Era un paese di mafia solida e antica, tra feudi immensi, ma Carmelo non era nel gotha della mafia. Era un muratore con la quinta elementare, sposato giovane con la coetanea Elisabetta Pocarobba, cognome che non stava a indicare un grande lignaggio. Nacquero Maria Concetta, Paola e Giovanni e poi tutta la famiglia emigrò a Robbio Lomellina, in provincia di Pavia. Era il 1960, il Nord viveva il miracolo economico. Carmelo vendeva tessuti ai mercati, ma non alzava una lira; anzi, la piccola società che aveva formato con il padre venne dichiarata fallita e «persino quei quattro pezzi di mobilio che avevo», come scrisse Patti ai giudici di Trapani per spiegare la sua impossibilità economica a sostenere il viaggio per il processo, «mi sono stati pignorati». Nel 1961 fu assunto come autista alla Philco, la fabbrica di elettrodomestici, e da quell’anno cominciò la scalata al cielo di questo ragazzo intraprendente. Carmelo ed Elisabetta, pur poveri in canna, incominciano ad acquistare terreni, fabbricati, magazzini, capannoni. Nel 1965 ne comprano uno addirittura dalla Philco, che aveva chiuso l’attività. Patti comincia allora la produzione di cavi elettrici: prima per piccoli elettrodomestici, poi per l’industria automobilistica. Doveva essere davvero bravo perché diventò, in vent’anni, il principale fornitore di cavi per la Fiat. Serviva lo stabilimento siciliano di Termini Imerese, poi Melfi e Torino; ma non solo: vinse le commesse per gli stabilimenti Fiat a Belo Horizonte, in Brasile, e a Cordoba in Argentina; formò la Cablelettra Spa e una cascata di altre società collegate; diventò, per l’impiantistica elettrica delle auto, quello che erano Pirelli e Ceat per i pneumatici (e poi dicono che la Fiat avesse un’attitudine nordista e lo sprezzo sabaudo…). Un ricordo di quegli anni lo fornisce Giacomo Di Girolamo, di Castelvetrano pure lui, studioso della Cosa grigia e autore del libro L’invisibile sull’ascesa del conterraneo Matteo Messina Denaro: «Lavorare per i fili della Fiat era un miraggio per le famiglie di noi poveri cristi. Era il 1993. I fili erano quelli dell’impianto elettrico della prima versione della Punto. Quando ci raccontavamo questa storia, ci sentivamo italiani, fieri di essere anche noi una minuscola ruota nell’ingranaggio del Paese. C’erano dei piccoli stabilimenti, garage sperduti in campagna, ci lavoravano le mamme di molti miei compagni di scuola. Altri si portavano il lavoro a casa, e anche i bambini davano una mano, i fili di rame annodati stretti, la tavola che entrava in casa, magica e misteriosa, con i suoi connettori, i tappetini di plastica rossa. Pure io, che ho la manualità di un elefante, riuscivo a destreggiarmi bene. Poi, tutto finì. Non pagarono più, avevano trasferito tutto in Tunisia». Ed ecco Carmelo Patti nel 1997. L’ex manovale di Castelvetrano fattura con i cavi 400 miliardi di lire l’anno ed è l’uomo nuovo sbarcato alla corte degli Agnelli. Ha vinto il Premio europeo di qualità ed è stato premiato direttamente dall’Avvocato. È stato nominato Cavaliere del lavoro. Compra, per 300 miliardi, soprattutto dall’Istituto San Paolo di Torino, il 77 per cento della Valtur, la principale azienda turistica italiana, proprietaria di venti villaggi vacanze in giro per il mondo, diventando così socio del Tesoro italiano titolare del restante pacchetto; progetta una joint venture con Alpitour di proprietà Fiat, con Club Mediterranée, con catene di alberghi, compagnie aeree e noleggi automobilistici per costruire il più grande polo turistico europeo. A guidare il tutto, la figlia Maria Concetta, che colleziona pagine di riviste patinate. Piccoli intoppi. Nel 1999 la Guardia di Finanza scopre fatture false per 35 miliardi. Nel 2000 la procura di Palermo apre un fascicolo per questioni che riguardano riciclaggio e mafia. Nel 2001 un brillante libretto del giornalista dell’Espresso, Mario La Ferla, lega il nome Patti e l’avventura Valtur, oltre che alla galassia Fiat, a quella di Cosa Nostra, e racconta, quasi divertito, i legami tra due mondi così distanti. Negli stessi anni alcuni grossi pentiti di Cosa Nostra cominciano a fare il suo nome. E così si scopre che Patti è stato davvero sfrontato. Come sindaco delle sue principali società figura infatti un certo Michele Alagna, commercialista di Castelvetrano. Niente di male, ci si fida di chi è più vicino. Ma un problemino c’è: Alagna è il cognato di Matteo Messina Denaro. Sua sorella Franca ha infatti avuto con il boss una figlia, Lorenza, oggi adolescente in quel di Castelvetrano, protetta come una principessina da consolare perché non può vedere il suo papà e destinata a essere l’erede dell’impero finanziario di Messina Denaro. Le operazioni che Patti e Alagna compiono sono tanto spericolate quanto impunite; aggiotaggio e concorrenza sleale (a un certo punto mettono in campo, per l’acquisto di un importante villaggio turistico sull’isola di Favignana, addirittura una imprenditrice di Castelvetrano di appena vent’anni capace di superare, sbattendo miliardi in contante sul tavolo della trattativa, l’offerta del gruppo Marcegaglia). E anche il drenaggio di denaro pubblico pare essere stato notevole e così la stessa malversazione messa in atto in Valtur. Poi tutto improvvisamente crolla. Si scoprono legami antichi tra Patti e addirittura il padre di Matteo, oltre al favoreggiamento della sua latitanza. L’intera vicenda si cristallizza nel processo che si è aperto il 20 aprile scorso al tribunale di Trapani, dove si discute, in pratica, del destino di una delle maggiori ricchezze italiane. Legioni di avvocati sono schierate. In autunno, il grande pentito Angelo Siino, l’ex ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra, sarà chiamato a dare la sua consulenza: probabilmente quella decisiva. Un pezzo della storia sconosciuta di questo Paese sta per venire alla luce e c’è solo da sperare che tutti accettino il verdetto. È anche possibile che, prima o poi, Matteo Messina Denaro sia arrestato e possa così fornire la sua versione dei fatti. Chissà.

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