di Massimo Brugnoli - 27 giugno 2012
Il Progetto San Francesco è un'associazione di promozione sociale nazionale, un centro studi, un movimento culturale federale e popolare a sostegno del sindacato, della responsabilità sociale, della contrattazione e del contrasto alle mafie nel mondo del lavoro.
Al Progetto è stata affidata a Cermenate, in provincia di Como, una villetta confiscata alla ‘ndrangheta in cui sorgerà il primo centro studi europeo di alta formazione contro le mafie, intitolato a Giorgio Ambrosoli.
Abbiamo intervistato il direttore nazionale, Alessandro De Lisi.
Alessandro, come nasce l’idea del Progetto San Francesco e quali sono i suoi obiettivi?
Il Progetto San Francesco è una necessità urgente di tentare di spostare l’antimafia dal dopocena al primo mattino. Per troppo tempo l’antimafia, soprattutto nella sua versione più comoda, più glamour, ha intrapreso un’operazione culturale molto importante ma nello stesso tempo non ha inciso nei processi di governance, nei processi economici territoriali. Faccio un esempio: la bellissima esperienza di Libera, soprattutto al Sud. Loro hanno individuato l’intercettazione del flusso economico dell’interesse mafioso. Non solo il lavoro, ma anche il consenso sociale della mafia. Libera è diventata il simbolo della lotta economica al crimine mafioso. Questo al Nord non è avvenuto e il Progetto San Francesco, che è nato in Lombardia ma che è una realtà in tutta Italia, si è reso conto che era il momento di spostare il tempo dell’antimafia dal dopocena, cioè dai dibattiti, al primo mattino, cioè alle scelte di ogni giorno. Scegliere di non stringere la mano a possibili esponenti criminali, scegliere di non sostenere certi politici in regione Lombardia, scegliere di non sostenere certe associazioni che attraverso per esempio sponsorizzazioni nel mondo del calcio non professionistico utilizzano il territorio come una grande lavanderia del denaro sporco.
Allo stesso tempo ci siamo però chiesti cosa potevamo fare materialmente. E abbiamo fatto proposte contestuali al mondo del lavoro e al mondo delle governance. Innanzitutto costituendo, secondo l’insegnamento di Nino Caponnetto, un pool sociale per rompere il meccanismo del consenso. Come? Indirizzando sul territorio risorse di “riciclo sociale”: il 35% del capitale confiscato vada immediatamente a sostegno degli ammortizzatori sociali. Togliere i soldi ai boss è un’operazione importante, ma spesso poco visibile sul territorio. E allora il Progetto San Francesco chiede che il 35% del capitale confiscato alla mafia vada ai lavoratori e alle imprese in difficoltà.
Oggi le tre vere anomalie italiane sono la corruzione, la criminalità organizzata e l’erosione fiscale.
Il recupero dell’erosione fiscale può essere il nuovo indirizzo di recupero di competitività di questo paese. Infatti noi chiediamo che il 21% del capitale confiscato vada a quelli che noi chiamiamo prestiti sociali, cioè per il recupero della competitività delle nuove e piccole imprese.
Il nostro approccio è anche un altro: quello di mettere insieme tutte le porzioni istituzionali. Confindustria con il sindacato, gli enti comuni con le università. E soprattutto generare in questa unità una stabilità delle relazioni, non soltanto nei convegni e nelle manifestazioni.
Credo che oggi l’emergenza della crisi economica ci ponga davanti ad alcune scelte. Ieri i boss al Nord investivano per riciclare, oggi acquisiscono il debito delle imprese e delle famiglie. C’è un grande bluff che bisogna svelare: le mafie non hanno interesse a strozzare e uccidere gli imprenditori. Infattti sono passati dal sequestro di persona al sequestro di impresa. Hanno capito che il rischio di morte del sequestrato era troppo elevato, e quindi non rendeva. E allora hanno sequestrato le imprese, che rendono molto di più rispetto a uno chiuso in una grotta sull’Aspromonte, incatenato per due anni come Cesare Casella. Sequestrare un’impresa non significa soltanto recuperare denaro pulito, ma soprattutto utilizzare quell’imprenditore per l’alta capacità sociale di avere relazioni “spendibili” che altrimenti il boss non potrebbe gestire.
Secondo te i cittadini del Nord hanno la giusta percezione della forte presenze della ‘ndrangheta e delle altre mafie?
No, credo di no, ma è un no dettato dalla sofferenza.
In Sicilia, ai tempi di Italia ’90, nessuno si era reso conto che i mondiali di calcio sono stati il più grande cantiere della criminalità organizzata. Io penso che è nel ’90 che nasce l’evento Cuffaro, da una grande capacità di relazioni fra le lo Stato e le sue istituzioni e Cosa Nostra.
Quello che è accaduto a Palermo nel ’90 con lo sventramento della città e l’abbruttimento clientelare della politica è quello che sta accadendo in Lombardia con la crisi e in vista dell’Expo, attraverso un sistema mafioso clientelare e corruttivo. Ci sono assessori completamente decerebrati, che nella loro devastante ignoranza sostengono che per combattere la ‘Ndrangheta bisogna scrivere le gare d’appalto in bergamasco. Questo non solo evidenzia la malfermità mentale dell’assessore, ma anche il fatto che non ha nemmeno guardato gli atti istruttori dei processi degli ultimi tre anni in Lombardia, dove la maggioranza degli arrrestati e dei condannati sono lombardi che hanno deciso di essere concime della malapianta criminale. Perchè non esiste che un mafioso possa fare affari da solo. Un mafioso per essere tale ha bisogno delle relazioni penetranti e costanti su tutto il territorio nazionale. Voglio ricordare che il gruppo di ‘Ndrangheta in Lombardia, emancipato ma sottomesso, si chiama appunto “La Lombardia”. Dobbiamo iniziare un percorso di emancipazione dalla ‘Ndrangheta, perchè oggi il 70% dell’economia di alcuni settori in questa regione è in mano alle mafie, o è almeno consenziente rispettto al sistema criminale. Due esempi su tutti: la Locatelli di Bergamo e la Perego di Lecco.
Quali sono i settori in cui è maggiore la presenza del cancro mafioso?
L’agroalimentare, l’edilizia, il credito e il mercato immobiliare.
Come giudichi l’attuale procedura di sequestro e confisca dei beni?
Effimera, poco incisiva. Dobbiamo innanzitutto distinguere le procedure di assegnazione. Una cosa sono i beni, una cosa le imprese e una cosa i capitali. Le imprese confiscate non valgono niente. Solo il 3% delle imprese confiscate ha ancora vita sul mercato. La grande maggioranza è competitiva perchè drogata dal riciclaggio, dall’autoriciclaggio, che in Italia tra l’altro non è reato, e dalle altre attività criminali.
I beni confiscati devono avere una regia territoriale, in grado di restituire l’uso del bene alla popolazione. Bisogna ragionare per distretti territoriali.
I capitali mafiosi sono gestiti proprio malissimo. Vanno tutti nel fondo giustizia del Ministero del Tesoro. Lì sono importanti, ma non evidenti. I soldi confiscati ai boss non li vedi mai, ma il taglieggiatore lo vedi. Noi dobbiamo arrivare prima del taglieggiatore. Occorre dimostrare agli imprenditori quanto sia utile poter utilizzare un fondo in cui ci sono dei soldi sequestrati ai boss per far crescere la propria azienda, attraverso un progetto sano e condiviso col territorio.
Uno dei tuoi maestri è stato Nino Caponnetto. Quali sono stati gli insegnamenti più importanti che ti ha lasciato e che lascerebbe ai ragazzi di oggi?
L’uomo mi ha lasciato l’umiltà e l’ironia. Nell’umiltà e nell’ironia c’è la perfetta letizia di San Francesco. Quello che mi ha insegnato il magistrato è un immenso amore per lo Stato, per il quale sono disposto a morire. Essere umile e autoironico, come lui era, mi ha aiutato ad attraversare le stagioni più buie della mia esistenza. E mi ha insegnato a non confondere i delinquenti e i loro sostenitori con le istituzioni che solo temporaneamente possono rappresentare. Per intenderci, la città di Palermo è una città bellissima ma non è la città di Vito Ciancimino e di Totò Cuffaro. La stessa cosa dicasi per lo stato italiano. Mai confondere la bellezza della repubblica italiana dal punto di vista democratico e culturale con chi delinque.
Poi sul piano pratico mi ha insegnato una cosa: unire i tre livelli dell’attività antimafia. Unire tutti i fatti in una catena che ha come spettro la ricerca della verità e non solo del fatto criminale in sè, come evento di cronaca. Inoltre unire tutti i soggetti culturali, politici ed economici del luogo in cui si opera e quindi creare il pool sociale contro le mafie. E unire tutte le proposte più ardite con le radici da cui provengono. Caponnetto aveva la capacità di legare le radici con le ali. Cioè la capacità di unire la nostra esperienza sul territorio con quelle che sono le nostre aspirazioni più alte, un’utopia che può tornare ad essere utilizzata come benzina delle istituzioni e della politica.
San Francesco è anche il patrono d’Italia, e non a caso il Progetto ha preso il suo nome. Per un cristiano quanto è importanto combattere la mafia?
Io sono cattolico, cristiano e francescano, ma questo non serve a nessuno perchè è la mia dimensione privata. Penso che per un cristiano sia indispensabile combattere le mafie, perchè è la semplice, naturale e devota applicazione del Vangelo. Nel Vangelo non può esistere la mafia. La mafia è un argomento demoniaco, che non ha nulla di metafisico, ma ha tutto quello che l’uomo senza una fede, senza un orizzonte più ampio riesce a partorire nella propria infinita piccolezza e mostruosità egoistica. Per un cristiano San Francesco è un punto di riferimento. Per me lo è. Ma per un semplice gesto che lui compì insieme alla scrittura della Regola di Assisi. Arrivando ad Assisi si arriva solitamente dalla grande pianura di Santa Maria delle Grazie. La grande chiesa sul rettilineo contiene una piccolissima chiesa, la porziuncola. La porziuncola è il simbolo del nostro impegno antimafia, perchè Francesco insieme ai suoi fratelli e sorelle decise di ricostruire questo piccolo rudere anzichè costruire una chiesa più grande e più bella magari di fianco alla chiesa rovinata. Riedificò quella chiesa un pezzo alla volta, con la coscienza che avrebbe fatto prima a costruirne un’altra altrove. Perchè la chiesa, come la società, va ricostruita dal di dentro, dal proprio rudere. Combattere la mafia per un cristiano significa recuperare il rudere della propria distrazione, e su quel rudere costruire una propria proposta di responsabilità sociale a favore del prossimo.